Dal Giappone alla Russia con furore
A soli undici anni Yuriko conosce già il peso dell'onore e l'importanza delle tradizioni. Nipote di Yamada, uno dei i boss della Yakuza più temuti del Giappone, la bambina vive con il nonno che, dopo la morte del figlio e della nuora, ha costruito intorno alla sua preziosa erede un mondo fatto di guardie del corpo ed improbabili personaggi pronti ad affrontare il suicidio rituale pur di espiare l'onta del disonore. Ma quando la situazione comincia a complicarsi e la polizia si mette sulle tracce del boss, Yuriko viene mandata in Italia per proteggerla da eventuali attentati. Lungo il viaggio, però, un atterraggio d'emergenza in Russia e l'improvvisa scomparsa del suo accompagnatore, danno inizio alla prima grande avventura della sua vita. Ad aiutarla solamente l'inseparabile orso di peluche, un'inaspettata conoscenza linguistica e il giovane Alexey, evaso per amore e legato alla sua nuova compagna di viaggio da un indissolubile legame di gratitudine. Così, tra fughe rocambolesche, personaggi dalla dubbia onestà e uno scontro finale esplosivo, il Giappone e la Russia s'incontrano attraverso un dialogo basato su presupposti diversi ma non così incomprensibili.
Dopo i successi internazionali ottenuti con Il prigioniero del Caucaso e Mongol, entrambi omaggiati da una nomination agli Oscar, Sergei Bodrov è tornato alla regia per firmare in coppia con lo storico collaboratore Gulshat Omarova una commedia action a metà strada tra la tradizione caucasica e quella nipponica. Prendendo in prestito gli elementi essenziali del confronto antropologico, i due registi hanno accarezzato l'idea di costruire a quattro mani un viaggio d'iniziazione semiserio in cui la diversa connotazione geografica dei protagonisti costituisce un punto di partenza su cui fondare le basi per una comunicazione capace di andare oltre la barriera linguistica e culturale. Un presupposto artistico interessante che, però, tradisce le sue debolezze più grandi proprio nella realizzazione cinematografica e nella scrittura di una sceneggiatura generalizzante. Superficiale nella proposizione di personaggi caratterizzati fin troppo grossolanamente dagli elementi basilari della loro provenienza, il processo narrativo si fa portavoce di una vicenda che fallisce nel veicolare emotività ed intrattenimento.
In questo modo A Yakuza's Daughter Never Cries tenta di catturare la divertita follia di un giovane Takeshi Kitano e la musicale messa in scena di Emir Kusturica senza riuscire ad imporre un carattere personale alla sua evoluzione. Impegnato nell'individuazione di modelli interpretativi e stilistici in grado di riassumere, in qualche modo, due diversi stili rappresentativi e due culture all'opposto, il film cade nel tranello di una duplicazione sterile dell'immaginario cinematografico. Così, decisi a tradurre le differenze culturali attraverso il linguaggio universale dell'immagine, Bodrov e Omarova mettono in scena delle maschere interpretative tanto statiche quanto prevedibili. Ed è proprio in questa mancanza di spessore e profondità che la pellicola mette in evidenza le sue fragilità più evidenti, costringendo la piccola Chika Arakawa a sostenere con la fresca leggerezza della sua interpretazione una causa al limite dell'impossibile.Movieplayer.it
2.0/5