Quando anche la tragedia può diventare un gioco
Siamo nel 1976 a Buenos Aires, Argentina, pochi giorni dopo il colpo di stato che portò ad un duro regime militare. Migliaia di cittadini vengono catturati, per poi diventare i tragicamente famosi "desaparecidos". In molti cercano di sfuggire a questa persecuzione, scappando nella campagne e vivendo nascosti, lontani da tutto e tutti. Il regista Marcelo Piñeyro ci racconta alcune settimane della vita di una di queste famiglie sul baratro della distruzione, ma lo fa in modo non convenzionale, confezionando un film emozionante e sincero.
Tutto il film è raccontato attraverso gli occhi di un bambino di dieci anni (lo straordinario esordiente Matías Del Pozo) di cui non sapremo mai il vero nome, come d'altronde per il resto dei componenti della famiglia: il padre avvocato, la madre scienziata e il fratello minore, affettuosamente chiamato "Il nano". Di questa famiglia che sarà l'assoluta protagonista della pellicola non sappiamo molto di più, conosciamo i nonni, un paio di compagni di scuola dei bambini, ma tutto il resto ci viene sapientemente tenuto nascosto, quasi fossimo anche noi il nemico. Ma d'altra parte Piñeyro non ci mostra nulla nemmeno del fronte opposto: vivendo la storia come fossimo anche noi dei bambini, siamo totalmente all'oscuro di quello che avviene al di fuori della casa in cui siamo rinchiusi, e - visto che anche l'uso del telefono ci è assolutamente proibito, anche solo per chiamare un caro amico di giochi - le uniche informazioni giungono ai nostri orecchi origliando di notte le conversazioni dei grandi e nulla più.
L'idea vincente di questo Kamchatka è proprio quella di non toccare mai l'aspetto politico (tra l'altro già al centro di moltissimi film passati) e di decontestualizzare la vicenda, rendendola così una storia universale. E cosa c'è di più universale del tema della famiglia? Che si voglia guardare da genitori o da figli, la storia del film è una storia che riguarda tutti e che grazie anche alla sincerità con cui viene raccontata (il filtro rappresentato dal bambino protagonista non è forse un modo per dare voce anche all'innocenza e alla purezza tipica di quell'età?) non può non commuovere, soprattutto nelle sue scene più toccanti, ovvero quelle in cui tutta la famiglia si trova raccolta insieme (per l'ultima volta? Questa la domanda che lo spettatore è costretto a porsi per tutta la durata del film).
Altro aspetto interessante del film è quello più giocoso che contrasta, e per questo fa risaltare ancor di più, la drammaticità degli eventi: seguendo per gran parte della durata della pellicola le giornate, spesso vuote e ripetitive, dei due figli, il regista non può che trasmetterci anche i loro giochi ed è così che seguiamo i tentativi di "Harry" nell'emulare le gesta dell'illusionista Houdini o le sue interminabili partite al gioco da tavola T.E.G. (una sorta di Risiko) con il padre. Piñeyro trasforma questi giochi in rappresentazioni simboliche della vita di questa famiglia ("Harry", nel tentativo di emulare Houdini, cerca di liberarsi dalle corde in cui si è fatto imprigionare e allo stesso modo i suoi genitori cercano di risolvere questa situazione di autosegregazione di cui loro sono allo stesso tempo le vittime ma anche la causa), arrivando in maniera molto diretta ad attribuire al titolo del film un elemento del gioco di cui parlavamo prima: chi avrà giocato a Risiko almeno una volta non farà fatica a ricordare la divisione del planisfero in decine di territori e nel Kamchatka un territorio dal nome quasi impronunciabile, ma sorto a simbolo dell'intero gioco a causa della sua leggendaria, e ovviamente aleatoria, capacità di resistere ad ogni attacco nemico. I genitori di "Harry" - interpretati con grande abilità e profondità da quelli che sono probabilmente i due attori argentini attualmente più quotati, ovvero Ricardo Darín e Cecilia Roth - sperano che i loro due figli possano anch'essi trovare la forza di resistere ed andare avanti. Da soli, come era inevitabile che fosse fin dall'inizio.
Movieplayer.it
4.0/5