Praga amarcord
Fa molto piacere, specie considerando quanto le cinematografie dell'Europa Orientale continuino ad essere penalizzate sul piano distributivo, che un gioiellino di sensibilità e fine umorismo come Vuoti a rendere (Vratné lahve) sia finalmente approdato nelle nostre sale. Lode alla Fandango che ha accettato la sfida, innanzitutto. Ma è da considerarsi poi così azzardata, una simile sfida? Non particolarmente. Il ceco Jan Sverák ha già dimostrato in passato di avere i numeri per raccontare storie universali, storie che sappiano valicare i confini nazionali e conquistare altre platee, conservando i tratti caratteristici della cultura di appartenenza. Il riferimento, inutile divagare, è al premio Oscar per il miglior film straniero vinto nel 1997 con Kolya, seconda pellicola a conquistare tale riconoscimento in rappresentanza di un paese che trent'anni prima aveva trionfato col capolavoro di Jiri Menzel, Treni strettamente sorvegliati.
In Vuoti a rendere, non diversamente da Kolya, vi è un protagonista silenzioso ma onnipresente, Praga; ed è quella stessa Praga magica celebrata nel saggio omonimo da Angelo Maria Repellino a trasformasi in un altro genere di sortilegio, città antica e al tempo stesso sopraffatta dal mutamento; non tanto nel sempre affascinante impianto urbanistico, quanto piuttosto nei comportamenti di tutti i giorni, nei ritmi di vita che si velocizzano a discapito di un'indolenza mitteleuropea, relegata così a retaggio di epoche passate, neanche troppo lontane. Lo sguardo del regista si fonde malinconicamente con quello disincanto del padre, Zdenek Sverák, che del film è sia sceneggiatore che interprete principale. Il suo personaggio, l'attempato e barbuto Josef Tkaloun, è l'erede naturale di quanto seminato nel più volte citato Kolya e in Scuola elementare (Obecná skola, 1991), che con Vuoti a rendere si prestano a comporre un ideale trittico. E in tutti e tre i film ci sono elementi autobiografici ad arricchire stagioni particolari della storia ceca recente, affrescate con la leggerezza cara agli autori; Zdenek Sverák, ad esempio, che ha realmente insegnato lettere per un certo periodo, si trova qui a interpretare un professore stanco dell'arroganza e della maleducazione di alunni diventati sempre più zotici, ignoranti, menefreghisti; tant'è che l'esasperazione lo spinge a mollare tutto e a sperimentare, nonostante la venerabile età, una serie di improbabili mestieri: dal pony express munito di bici al commesso del supermercato, incaricato insieme ad altri pittoreschi soggetti di riscuotere i vuoti delle bottiglie.
Il microcosmo che ruota attorno alla scuola, al supermercato, allo scombinato nucleo famigliare di Josef, è descritto con tono divertito e a tratti persino piccante, come dimostrano i sogni erotici dell'anziano ma ancora vitale signore, che ci regala così piccoli momenti di trasgressione dall'esito inevitabilmente tragicomico. Ogni incontro di Josef con i parenti, con i colleghi vecchi e nuovi, con le vecchine che vanno a fare la spesa, viene preso a pretesto di stralunati aneddoti dalle conclusioni spesso grottesche, neanche fosse un racconto di Hrabal, come pure di riflessioni imbevute della tenue malinconia, attraverso la quale i due autori vogliono raffigurare una società che sta perdendo i propri punti di riferimento. Si sorride con garbo di fronte alle modeste disavventure di Josef, dei suoi amici, ma si ha pure l'impressione che l'umanità di una volta sopravviva a stento nella Praga odierna, pressata dalla rincorsa ai modelli occidentali. Eppure, come nella miglior tradizione dei film di Jan Sverák, le tensioni sono pronte a sciogliersi in un crescendo catartico e liberatorio, nel caso specifico il volo di una mongolfiera, da cui i protagonisti possono riappropriarsi di una visione panoramica del radioso paesaggio sottostante, foriero di toccanti ricordi giovanili per Josef e consorte. La senilità va incontro alla primavera. E ne esce rigenerata.