Polvere di latte
Quella turca è sicuramente una tra le cinematografie più interessanti e in evoluzione del panorama mondiale. Purtroppo spesso evidenzia gravi limiti dal punto di vista narrativo, vittima di quello stesso immobilismo che continua a raccontare e che sembra caratterizzare un'impalpabile società turca. L'esempio più evidente di questo tipo di cinema è rappresentato da Nuri Bilge Ceylan. Sulla sua scia si pone Semih Kaplanoglu che presenta in concorso alla Mostra del cinema di Venezia il suo Milk, storia del lattaio Yusuf, aspirante poeta, che vive con la madre vedova e si aggira per le strade della sua città senza apparente meta. Sebbene ormai ragazzone cresciuto, il protagonista dipende ancora dal latte prodotto della madre, che gli fornisce la sua unica opportunità di lavoro. Intanto viene esonerato dal servizio militare dopo la visita di leva ed è costretto a confrontarsi con l'ingombrante ombra di Edipo.
Milk fa aggirare il suo protagonista in una Turchia in divenire, piena di contraddizioni: la società rurale, la tradizione, non s'accorda con l'arrivo delle fabbriche, del progresso, madre e figlio faticano a trovare un punto d'incontro per una vita in armonia, dubbi e sospetti rischiano di comprometterne il rapporto. Yusuf attraversa queste apparentemente pacifiche lacerazioni con uno sguardo che perde progressivamente curiosità, si spegne di pari passo con quella stasi che lo cristallizza in attimi che il regista si limita a fermare, dilatando a dismisura i tempi, senza modo di indagare. Così i tanti temi che Milk sembra destinato a toccare e le questioni messe in gioco da sciogliere vengono presto sciupate da una narrazione paradossalmente ostruita dal grande fascino delle immagini. Kaplanoglu colleziona infatti una serie di fotografie, splendide da ammirare, ma che si bruciano nello stesso momento in cui vengono scattate.
Dispiace constatare ancora una volta i limiti di un cinema che si presenta ammaliante sul piano estetico, ma totalmente fallimentare nello svelare i suoi intenti. Anche i simboli, come il serpente, sembrano buttati lì senza affidargli molto senso o forse è solo il negare la possibilità allo spettatore di decifrarli nel modo giusto a rendere particolarmente ostica la lettura del film. Certo le immagini immobili che si susseguono sanno raccontare comunque bene una quotidianità fatta di niente, di una poesia masticata che resta sulla lingua, impossibile da sputare o da inghiottire. Si pretende sempre tanto da un cinema che carica di aspettative, ti appoggia sulle labbra gocce di latte, che si rivelano polvere nel momento in cui le assaggi. S'avverte sempre un po' d'amarezza quando le ottime premesse vengono sprecate così.