Il direttore Frederic Maire è orgoglioso ed emozionato di fronte a Pippo Delbono, una delle più belle realtà teatrali italiane che qui a Locarno è presente in veste di regista cinematografico con una retrospettiva completa delle sue opere. Locarno si è lasciato sfuggire due anni fa il bel documentario Grido, entrato a far parte del programma della Festa di Roma, ma stavolta Maire è partito deciso all'attacco quando ha saputo che Delbono stava girando un nuovo film e la vetrina locarnese è una splendida occasione per conoscere l'altro Delbono, quello non prettamente teatrale.
Come è nato il progetto La paura?
Pippo Delbono: Io non avrei mai pensato di girare un film con il cellulare, perché l'ho sempre collegato all'uso che ne fanno i fidanzatini, ai messaggini sgrammaticati e a tutte quelle cose che non mi appartengono. Quando una casa di produzione francese mi ha offerto di realizzare un'indagine con il telefonino all'inizio, da buon ligure, ho accettato perchè potevo telefonare gratis in Francia. Poi provando il telefono mi sono reso conto che aveva una qualità di ripresa veramente molto elevata e che avrei potuto trarne immagini interessanti. Personalmente sono contrario alla sceneggiatura precostituita, ma credo piuttosto in una sceneggiatura segreta che lega tutte le cose perciò ho iniziato a girare La paura seguendo il mio istinto. La paura nasce da un dolore collettivo, da qualcosa che non riesci neanche a capire ma che scaturisce dalle persone. Un oggetto così piccolo e così poco ingombrante mi ha permesso di arrivare in alcuni luoghi come persona singola e non come cameraman. Mentre giravo gli altri
riuscivano a guardarmi in faccia, percepivano la mia timidezza, il mio tentativo di non invadere i loro mondi, ma di documentare. In questo modo sono riuscito a riprendere il funerale del giovane africano ucciso dopo un furto, sono entrato in un campo nomadi, mi sono relazionato con i soggetti ripresi. Quando abbiamo girato Guerra avevamo una troupe vera e propria. Alla fine delle riprese mi sono trovato con novantacinque ore di girato. Un incubo. Non sapevo da che parte cominciare. E' stato veramente difficile, a un certo punto ho trovato un'inquadratura e sono partito da lì. Per La paura mi sono ritrovato con quattro ore di girato. Eppure non costa niente, però in questo modo dai un altro valore, una preziosità al girato nel momento in cui accendi il telefonino. E' come dare il via a un rito. Ho fatto risuonare dentro di me la sceneggiatura segreta che mi guidava e ho ripreso solo i momenti veramente significanti.Vi è un legame molto stretto tra La paura e La menzogna, il tuo ultimo spettacolo teatrale. Entrambi nascono dall'osservazione di un fatto di cronaca (il funerale di un giovane africano ucciso in seguito al furto di una scatola di biscotti e la tragedia della ThyssenKrupp nell'altro). La paura e la menzogna rappresentano due facce della stessa medaglia, due sentimenti che permeano la società, uno generato dall'altro. Da dove proviene questa visione così cupa?
Pippo Delbono: E' esattamente così. La paura e la menzogna sono strettamente collegate. Non voglio essere pessimista a tutti i costi, ma a volte è necessario liberare l'urlo che vive dentro di noi. Io sono buddista da vent'anni, non sono certo un brigatista, però sento la necessità morale di ribellarmi, denunciare i mali della società. Nel film prouncio parole dure contro l'Italia, che accuso di essere un paese di merda, razzista e fascista. So che queste frasi possono disturbare e che forse non servono a cambiare le cose, ma possono aprire gli occhi di fronte alla situazione che stiamo vivendo. Alex Zanotelli, in un video proiettato ne La menzogna, dice che la camorra è penetrata in profondità nella società dominandola a tutti i livelli. E a dire queste cose non è un brigatista, ma un prete. La situazione che l'Italia sta vivendo attualmente è molto complicata e chi non è italiano non lo può capire a fondo. Per girare La paura ho usato molte immagini prese dalla tv italiana e mi sono messo sul divano con Bobò, l'attore sordomuto che vive con me e che guarda solo le immagini senza capire le parole. I miei amici intellettuali mi dicono sempre "Io non guardo la tv". Invece è molto istruttivo, dovremmo farlo tutti. Sono rimasto allucinato da quello che vedevo, ma è proprio dalla televisione che si formano gli italiani e solo in questo paese abbiamo un capo del governo che possiede il controllo di tutte le televisioni. L'unica cosa che possiamo fare è denunciare questi fatti. Pasolini dice: "Lanciamo i desideri il più in alto possibile". Non so serve a qualcosa dire che l'Italia è un paese di merda, ma io
lo faccio.Il tuo film ricorda molte opere sperimentali girate non con il telefonino, ma con mezzi alternativi a quelli usati nel cinema tradizionale. L'uso che fai dell'immagine sporca e dei pixel ben visibili sembra quasi generato volontariamente per ottenere un effetto particolare.
Pippo Delbono: Ci sono due fasi del mio lavoro. Nella fase di montaggio, quella che io definisco sciamanica, mi chiudo in me stesso per concludere il lavoro, mentre nella fase di ripresa mi muovo per osservare il mondo. Il mio è un linguaggio sporco che serve a fotografare la realtà. Quando i reporter di guerra, o anche i semplici testimoni, filmano le violenze e i massacri non si preoccupano se nelle immagini si vedono i pixel perché quello che conta realmente è il contenuto. In caso contrario si rischia di decontestualizzare un lavoro. Gli snob intellettuali borghesi che vanno a vedere a teatro Orgia di Pasolini sentono di aver vissuto il loro momento comunista. Visto in questo modo Pasolini, uno dei più grandi intellettuali che abbiamo avuto in Italia, viene decontestualizzato e banalizzato. La rivolta nasce dalla destabilizzazione.
La tua capacità di ribellione spesso provoca critiche e reazioni negative da parte di quel pubblico che non capisce o non vuole capire proprio perchè viene destabilizzato. Ma tu come ti relazioni con gli altri?
Pippo Delbono: A volte faccio anche paura, come ne La menzogna, dove ho un bastone che uso in modo violento. La cosa bella di questo festival è che arrivi in un posto dove ti incontri con gli altri. Ormai l'incontro è qualcosa che non esiste più. Viviamo una solitudine profonda, anche nel mondo degli artisti che è fatto di relazioni. Quando incontri gli altri inizi a capire che questa solitudine è condivisa, perciò essere qui ed entrare in contatto con tutte queste persone è veramente incredibile.