Oggi Pete Doherty è un uomo nuovo. L'uscita dal tunnel della droga (anche se la strada è ancora lunga) coincide con un'esistenza di beatitudine. Il matrimonio con Katia DeVidas, sua compagna da più di dieci anni, la nascita della figlioletta (la terza per Doherty) solo cinque mesi fa, la residenza in Normandia, montagne di pannolini da cambiare, i cani da portare a passeggio, la legna per il fuoco da tagliare e l'orto da curare ("coi pomodori abbiamo fallito, ma le zucchine sono fantastiche"). E naturalmente i viaggi per le presentazioni di Stranger in My Skin, documentario diretto da DeVidas che racconta il percorso di Doherty verso la disintossicazione e che è stato presentato a Firenze al Festival dei Popoli 2023.
Gentile e disponibile, Peter Doherty parla a voce bassa, che a tratti diventa un sussurro mentre rincorre i propri pensieri. Commentando il fisico appesantito, ammette di aver sostituito le dipendenze con salumi e camembert ("ma arriverà il momento di pensare anche a quello"). Nel frattempo celebra quatto anni di libertà da crack ed eroina. Solleva le mani e spiega: "Sono pulite. Nel film le ho sempre sporche di pipa per fumare il crack o di terra". Qualcosa è davvero cambiato e non è solo il fatto che il "bad boy" del rock inglese ha messo la testa a posto. Doherty è un sopravvissuto, come la moglie che gli siede accanto ammette spiegando: "A differenza di Peter, molti non ce l'hanno fatta". A tal proposito, il cantante si illumina quando citiamo la scena in cui compare Amy Winehouse: "Era lì mentre giravamo. Non stavamo neppure insieme, ma Amy ci disse 'Voi due vi sposerete'. Lo aveva già capito".
Il ritratto più onesto in un documentario
Stranger in My Own Skin ha richiesto anni di riprese. Per costruire questo ritratto intimo e drammatico, Katia DeVidas ha registrato ore e ore di riprese per poi tagliare gran parte del materiale. Tutto per cogliere il "qui e ora", concentrandosi esclusivamente sul soggetto del film ed escludendo l'uso delle teste parlanti "che tanto vanno di moda in certi film di oggi e sono rapide da filmare, ma il nostro sembra un film degli anni '70. Il processo di guarigione di Pete non era qualcosa di premeditato, è successo mentre giravamo"".
"È successo grazie a te e alla tua presenza" aggiunge Doherty, rivolto alla moglie. "Probabilmente questo film è il ritratto più onesto di me, è un collage di immagini, ritratti, ricordi, scene oniriche, amici che non ci sono più. Durante la pandemia ho anche provato a scrivere un'autobiografia, ma il risultato non mi piace".
Una vita di eccessi (e tentativi di disintossicazione)
Effettivamente c'è tanta verità nel documentario su Pete Doherty, che rivela i retroscena della dipendenza del cantante e le varie fasi di disintossicazione. "La dipendenza dalla droga è una malattia cronica, come il diabete o la depressione" spiega il cantante. "Tra cinquant'anni sarà più chiaro e forse verrà trattata in modo diverso, ma oggi le prigioni sono piene di tossicodipendenti che delinquono perché drogarsi è molto costoso. Puoi essere attivo e consumare sostanze o passivo, ma la malattia resta con te per sempre". Poi confessa: "Mi sono sempre rifiutato di considerarmi un tossicodipendente, pensavo di poter usare le droghe a mio vantaggio, senza che intaccassero la mia creatività. Ammettere la dipendenza per me è stata una sconfitta".
Ma il film contiene anche momenti più leggeri. In una scena vediamo il leader dei Libertines che balla nella sua rehab thailandese sulle note di The Boy with the Thorn in his Side degli Smiths ("Adoro ballare e adoro gli Smiths" esclama), in un'altra è bloccato su un treno per Parigi, dove deve tenere un concerto. Quando arriva, alle tre di notte, si intrattiene coi fan rimasti in un pub suonando per loro invece di andare a dormire. "Non conosco il pubblico cinefilo che vedrà il mio film" ammette "ma il pubblico che mi segue da vent'anni conosce la mia storia e i miei eccessi. Non so come reagiranno gli altri, che non conoscono la mia musica. Forse troveranno il film un collage di stranezze, ma spero che li intrattenga".
Il "cinefilo" Pete Doherty
Pur essendo un film molto intimo e personale, Stranger in My Own Skin è prima di tutto un documentario musicale. Tra i modelli di riferimento Katia DeVidas cita Martin Scorsese ("lui è un modello per tutto"), ma anche Let's Get Lost, il film di Bruce Weber su Chet Baker, e Don't Look Back, documentario su Bob Dylan del 1967. Pete Doherty interviene lodando Oscenità e furore, il film di Julian Temple sui Sex Pistols "che studia la società inglese dell'epoca raccontando il punk. Questi sono veri film, non pellicole promozionali per gli artisti".
E qualche "vero film" Doherty l'ha interpretato in veste di attore, compreso il period movie Confessioni di un figlio del secolo, in cui ha affiancato Charlotte Gainsbourg. "Aspetto che qualcuno mi richiami" confessa. "Vorrei tanto recitare ancora, è un sogno, ma nessuno mi chiama. Tra i miei registi preferiti? Otto Preminger, Frank Capra, Fritz Lang e Alfred Hitchcock. Apprezzo molto anche Clint Eastwood, Ken Loach e Mike Leigh. E poi mi piacciono certi film italiani, Ladri di biciclette, La mano di Dio di Sorrentino". Il discorso cade infine su Tim Burton. Pete Doherty si entusiasma come un bambino nello scoprire che sta girando il sequel di Beetlejuice e conclude esclamando: "Lo adoro! Tornerà anche Michael Keaton? Sul serio? Che notizia meravigliosa mi hai dato!"