Paura in mare aperto
In un periodo dove al cinema sembra andare di moda la sovrabbondanza (formale e contenutistica), dove l'eccesso, il barocco, l'(ab)uso di effetti speciali sembrano farla da padrone, dove spesso e volentieri si mira non tanto alla conquista dell'attenzione dello spettatore ma allo stordimento dei suoi sensi, arriva nelle nostre sale un film piccolo piccolo (nel budget, nel cast, nella durata, forse persino nelle pretese) che pare voler contraddire queste tendenze e riaffermare la centralità della narrazione.
Scritto, diretto e montato da Chris Kentis (e prodotto dalla moglie Laura Lau), Open Water è tratto da una storia realmente accaduta e segue le vicende di una coppia che parte alla volta di un'isola caraibica per "staccare" dal lavoro e dedicarsi al comune hobby, le immersioni subacquee. Ma quella che doveva per loro essere una vacanza da sogno si trasforma presto in un incubo: salpati con una comitiva per un'immersione in mare aperto, i due si isolano e quando riemergono si accorgono che per errore la loro barca è tornata in porto lasciandoli lì soli, in balia di correnti, squali e delle loro peggiori paure.
Dopo un incipit dallo stile quasi documentaristico nella sua asetticità, il film entra nel vivo quando i due protagonisti - interpretati da Blanchard Ryan e Daniel Travis - si ritrovano da appunto soli, abbandonati nel bel mezzo dell'Oceano: da lì in poi il film non conoscerà praticamente altre immagini se non quelle dei due sub dispersi, la camera costantemente inchiodata su di loro, a pelo d'acqua. Un tipo d'immagine che serve anche a rispecchiare come il mondo dei due protagonisti sia diviso a metà: la parte superiore, quella emersa, quella dove la vista può compiere il suo dovere, dove la speranza può ancora essere cullata; e quella inferiore, sommersa, regno dell'ignoto e dell'invisibile, popolato da creature temibili ed ancestrali come gli squali, a loro volta incarnazione delle paure più profonde dell'uomo.
Per quanto breve possa essere il film (un'ottantina di minuti), la scelta di realizzarlo in maniera tanto assoluta - due soli protagonisti, zero scenografia... - era sicuramente una scommessa azzardata da parte di Kent, che però è riuscito a trovare la giusta chiave narrativa per coinvolgere ed agghiacciare lo spettatore. Ad atterrire è quello che non si vede, che non si comprende, che non si conosce; è la paura ancestrale e primordiale del buio ad essere messa in gioco: così come i due protagonisti noi non vediamo la minaccia rappresentata dagli squali se non fugacemente, come loro veniamo catturati dall'ansia dell'attesa più che colpiti effettivamente da qualche avvenimento concreto.
Il mare e le sue profondità, gli squali, sono simboli delle ansie più antiche e radicate della natura umana, e Kentis sembra saperlo bene, mettendo in scena i pochissimi elementi a sua disposizione con grande equilibrio e ottima efficacia; e tra i pochi elementi a disposizione del regista, oltre appunto agli artifici visivi di cui abbiamo parlato, c'è anche il dialogo. Ancora una volta le battute messe in bocca ai due dispersi mostrano apertamente come le loro psicologie si vadano progressivamente logorando, di come ci sia un progressivo cadere delle sovrastrutture che regolano i rapporti sociali. Sovrastrutture, ruoli, che nel mezzo della Natura più aperta e selvaggia perdono di valore e significato; e quindi ancora di più viene (di)mostrato come alla base del film ci sia il contrasto tra la Civiltà e la Natura. Lo spogliarsi progressivo dei protagonisti degli artifici che la modernità e la società hanno costruito intorno e su di loro va quindi di pari passo con un film che diventa sempre più spoglio di eventi e situazioni, avviandosi verso un finale che mostra ancora una volta quanto a fiaccare e sconfiggere realmente i protagonisti e gli uomini tutti non sono tanto (o non solo) le minacce concrete, ma le ansie e le attese che fiaccano la mente prima ancora del corpo: per tutta la durata del film infatti i protagonisti - e di riflesso gli spettatori - sono sfiancati e sfibrati dalla tensione dell'attesa, da un crescendo inarrestabile di tensione e paura, un crescendo che alla fine si rivelerà insopportabile per gli uni e spiazzante per gli altri.
Con Open Water quindi Chris Kentis ha firmato un film che - proprio per il suo essere scarno ed il suo andare a scavare nell'inconscio dei protagonisti e degli spettatori - è un piccolo gioiello di narrazione, che dovrebbe servire da esempio per tutti quei registi che oggi puntano sull'esplicitazione costante e continua senza avere le doti per controllarla, trasformando così il loro film in un'inutile baracconata dove il senso - proprio perché sovrabbondante e ridondante - viene inevitabilmente a perdersi.