Dopo il trionfo veneziano con il suo nuovo lungometraggio, che uscirà a novembre in sala e poi su Netflix qualche settimana dopo (il diretto interessato parla di tre settimane di esclusività al cinema per l'Italia), Paolo Sorrentino ha conquistato anche il pubblico del Festival di Zurigo, dove ha tenuto una strepitosa Masterclass prima di ritirare il riconoscimento noto come A Tribute to... Award, premio alla carriera assegnato dalla kermesse elvetica. Il regista partenopeo ha intrattenuto gli spettatori per un'ora all'interno del Filmpodium, storica sala d'essai zurighese, sempre con la battuta pronta, a cominciare dal motivo per cui è venuto al festival: "Sono molto felice di ricevere questo premio per la prima parte della mia carriera, me ne aspetto un altro fra vent'anni." Ironizza anche sul suo rapporto con la Svizzera, dove ha girato due film: "Se qualcuno dovesse avere una villa in più sul lago e garantisce che potrò vedere le partite del Napoli, vengo subito a vivere lì." Nessun argomento è esente da battute, a seconda del contesto: quando Christian Jungen, moderatore dell'incontro e direttore artistico del festival, paragona il rapporto professionale tra Sorrentino e Toni Servillo a quello, più o meno coevo, tra Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese, il cineasta apre la risposta con il commento "Vabbè, mo', insomma..."
Questioni di autorialità
Si parte dal nuovo film, È stata la mano di Dio, che porta liberamente sullo schermo la gioventù di Paolo Sorrentino nel periodo in cui Diego Armando Maradona risollevava le sorti del Napoli (da cui il titolo del film, anche se Maradona non è un vero e proprio personaggio all'interno del racconto). Lui era a conoscenza del film? "Non ne sono sicuro, ma il suo entourage sì, perché hanno cercato di farmi causa pensando che stessi usando senza permesso l'immagine di Maradona, cosa che il film non fa. Purtroppo, è venuto a mancare durante la post-produzione e non ho potuto mostrargli nulla." Cos'ha visto nel giovane Filippo Scotti, che interpreta il suo alter ego e ha vinto il Premio Mastroianni a Venezia? "Niente, esattamente come mi vedevo io a quell'età. Ovviamente non lo dico in sua presenza." E com'è stata la collaborazione con Netflix, solitamente percepito come nemico giurato della sala? "Mi hanno dato assoluta libertà, e in realtà sono dei cinefili, vogliono persino stampare delle copie in pellicola per l'uscita in sala." Dal pubblico arriva una domanda in merito, sulla possibilità di estendere il periodo di esclusività al cinema per aiutare gli esercenti in tempi di pandemia. La risposta è un pezzo di autoironia: "Non posso rispondere, lì si parla di politica culturale. È già tanto se riesco a finire i film."
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Facendo un discorso più generale, c'è chi pensa che il nuovo lungometraggio differisca stilisticamente dai precedenti. È una nuova era del cinema di Sorrentino? Secondo lui no. "Non penso di avere uno stile, perché si adatta ogni volta alla storia che sto raccontando. La riconoscibilità dei miei film non dipende dallo stile, è che io ho il mio ritmo. Lento, ma non lentissimo. Mi rimproverano per questo, ma sono loro che vanno di fretta." Cosa pensa del paragone con Fellini? "Mi lusinga, ma è errato. Certo, La grande bellezza deve molto a La dolce vita, ma non mi accosterei mai a Fellini, e non lo dico per falsa modestia, lo penso veramente. Lui, Bergman, Kurosawa, sono dei giganti che hanno inventato un certo modo di fare cinema, non ci si può paragonare a loro." Qual è il suo rapporto con la critica? "Thierry Frémaux mi ha preso sei volte in concorso a Cannes, nonostante la critica francese non mi apprezzi particolarmente. Che cosa rimproverino nello specifico non lo so, perché molto vigliaccamente leggo solo le recensioni positive, appena mi accorgo che è negativa smetto. Ricordo una rivista, Les Inrockuptibles, che mi definì il peggior regista del mondo. Quello lo prendo come un complimento, perché essere il peggiore in assoluto non è cosa facile."
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L'approccio al cinema
Com'è nata la voglia di fare cinema? Ha fatto studi particolari? "No, nulla. Liceo Classico, poi ho studiato Economia e Commercio, senza laurearmi. Ma ero appassionato di scrittura sin da ragazzino." È la parte che preferisce del processo creativo? "Sì, perché mi piace stare da solo in casa a lavorare, sono un bravo casalingo. Stare sul set non è il mio forte, perché non sono molto bravo con i gruppi di persone." Quest'ultima considerazione si estende anche alla stagione dei premi, con un ricordo della campagna per gli Oscar, poi rivelatasi fruttuosa: "Ci furono centinaia di cocktail, lì funziona così, devi far vedere il film al maggior numero possibile di persone, quindi si organizzano eventi, proiezioni, e tanti cocktail. Meno male che poi abbiamo vinto, altrimenti sarebbero rimasti solo i cocktail. Non è la parte che preferisco, ma capita anche di fare dei begli incontri." E si torna a parlare della Svizzera: "È un paese che mi piace molto, non è da cocktail. Il popolo è misterioso, e mi piacerebbe entrare nelle case di tutti gli svizzeri per vedere i panni sporchi, perché succede talmente poco fuori che mi immagino tantissime cose che accadono dentro." Com'è nata la scelta di girare due film in territorio elvetico? "Le conseguenze dell'amore è stato girato a Lugano perché il personaggio di Servillo era uno dei cosiddetti spalloni, quelli che portavano i soldi dall'Italia alla Svizzera. Youth - La giovinezza, invece, è stato girato a Davos e dintorni perché la storia prevedeva un resort di lusso in montagna, e quello che ci piaceva di più l'abbiamo trovato lì, ma abbiamo guardato anche nel Nord Italia. Il primo è un film sulla Svizzera, il secondo è un film ambientato in Svizzera."