Orson Welles: atto secondo
Parlando de L'orgoglio degli Amberson in realtà si vorrebbe parlare di un altro film. Di quel film che Orson Welles aveva in mente e che mai potremo vedere sullo schermo. Le vicende che hanno portato al taglio di 33 minuti finali sono abbastanza note. Welles è al suo secondo film, all'apice della sua popolarità. Terminate le riprese, è costretto (gli scriverà Roosevelt di persona) ad andare a girare il carnevale di Rio, per quello che l'amministrazione americana concepiva come un documentario volto alla distensione delle relazioni panamericane. Il montaggio rimane in mano agli studi della Rko, la casa produttrice con la quale Welles inizia la sua avventura nel mondo del cinema, che, dopo una proiezione esplorativa dai riscontri non esaltanti, decide di mettere mano pesantemente al film, considerato troppo lungo e farraginoso. Finiranno dunque nel cestino 33 minuti di film, che Welles dal sudamerica proverà, senza successo, a salvare almeno in parte con un fitto carteggio di minuziose istruzioni.
Inizierà da qui, appena dal secondo film, la "leggenda nera" su Welles, sui suoi modi e sui suoi capricci, leggenda ampiamente infondata che segnerà, solo un anno dopo Quarto potere (anch'esso un flop di incassi negli Stati Uniti) l'inizio della sua parabola discendente.
Ci piacerebbe qui affrontare quel film che è esistito per un brevissimo periodo nel 1942, ma che non ci è più possibile ricostruire. Il dato per certi versi eccezionale è che la pellicola, nella sua interezza, non ha smarrito affatto quella potenza (e prepotenza, per certi versi) visiva che faceva pensare a Welles che "sarebbe stato molto meglio di Quarto potere".
L'intento di fondo è sempre lo stesso. Far trasparire un'umanità profonda e complessa dietro la cortina fumogena dell'alta società, della ricchezza economica. Negli Amberson, in modo più larvato e, per questo, probabilmente più incisivo che in Citizen Kane, la sfera d'azione in cui i personaggi si muovono è quella del potere. Potere inteso come possibilità di prevalere, non necessariamente come imposizione obbligata. Welles parte da questa sovrastruttura sociale per introdurre i suoi personaggi (si pensi alla descrizione, finanche fisica, del piccolo Gorge Amberson sul carrettino). La ricerca di senso per i suoi personaggi va ben al di là di questo approccio iniziale.
Ogni Amberson ha una sua "Rosebud", una sottotraccia che scardina la patina di invincibile borghesismo della quale sono ammantati. Welles da subito descrive un mondo con precise scelte registiche. La macchina da presa è posta nella maggior parte dei casi più in basso di quella che potrebbe essere un'ipotetica soggettiva degli attori. Doppia la valenza, una etica e una funzionale. Quest'ultima è quella di ampliare gli spazi, di rendere "magnificent" le scenografia in cui gli attori si muovono, allo scopo di presentare in tutta la sua grandezza la cornice in cui gli Amberson vengono dipinti. Ma anche un fondamento etico, si diceva. Quello di una posizione di prenne sottomissione, in cui si è quasi costretti ad alzare la testa se si vuol cogliere espressioni e movimentii dei protagonisti.
E così, a dispetto della sovrastruttura scenica nei quali li si vuol collocare, gli Amberson sono intimamente umani, con tutti i difetti ei pregi che ciò può comportare.
_"Lo odiavano tutti, ma nessuno riusciva a sostituirlo in mezzo alla comunità". Questo il giudizio netto, conciso, che Welles ci offre su Gorge Amberson, come anche sull'intera famiglia. _
Una storia, come praticamente tutte quelle del Welles regista, che dipinge con agili plan e inquietanti campi lunghi la parabola discendente di un grand'uomo, di una grande famiglia, che cade in rovina per non essere riuscita ad adattarsi ad un mondo che cambiava. In fondo Welles ci indica chiaramente tutto nel serrato incipit (che nella versione originale vedeva lo stesso Welles come narratore). Un mondo che cambiava in fretta, nel quale una seconda possibilità era dura da ottenere. Le occasioni sprecate saranno la tara della potente famiglia, che nei modi e nei tempi cinematografici tenderà a ribadire costantemente lo sprezzante distacco tra "un Amberson" e il resto del mondo.
Ma nelle ultime sequenze la macchina da presa si eleva ad altezza volto. Segno che George Amberson ha iniziato a dare del tu alla vita. Segno che noi possiamo iniziare a dar del tu a George Amberson.