Nel villaggio dell'inganno
Dopo aver raccontato con uno stile ormai ben preciso e identificabile storie di fantasmi, omaggi al mondo dei fumetti e invasioni extraterrestri, torna M. Night Shyamalan, uno dei giovani registi più coccolati e osannati da pubblico e critica, forse troppo frettolosamente etichettato come "genietto" ma comunque indubbiamente in grado di lasciare un segno ben visibile nella contemporaneità cinematografica.
Questa volta, con The Village, Shyamalan ci porta indietro nel tempo fino alla fine dell'Ottocento, all'interno di una piccola comunità che si è volutamente isolata dal mondo e dalle sue crudeltà (tutte identificate con la città, con la metropoli) e si è stabilita in una vallata circondata da boschi fitti e misteriosi. Ad amplificare - e in un certo senso facilitare - l'isolamento di questa comunità è il fatto che questi boschi sono abitati da ancestrali e temibili creature, con cui i fondatori del villaggio hanno stretto un patto: gli uomini non entrano nei boschi, le creature non attaccano il villaggio. Un patto che viene meno quando un giovane del villaggio si avventura oltre il confine stabilito, scatenando così una serie di drammatici eventi.
Giunto al suo quinto lungometraggio (il quarto da Il sesto senso), Shyamalan non sembra voler rinunciare a nessuno dei suoi tratti distintivi: grande eleganza formale, sfoggio di tecnica, capacità evocativa per quanto riguarda sentimenti ed atmosfere e, soprattutto, l'utilizzo di un twist-in-the-end, di una sorpresa finale che giunge (presumibilmente) inaspettata per stravolgere la prospettiva del pubblico nei confronti della storia che è stata loro raccontata. Una formula che gli ha garantito (finora) il successo, ma che a nostro parere rischia di trasformarsi presto in una gabbia formale e contenutistica che significherebbe uno stantio ripetersi. Già in The Village alcuni di questi elementi mostrano la corda, con il risultato di trasformare il film in un qualcosa di formalmente impeccabile (ma con qualche caduta di tono, come il viaggio di Bryce Dallas Howard attraverso il bosco), ma eccessivamente rarefatto nella descrizione delle atmosfere e degli stati d'animo dei protagonisti.
Ma, al di là di queste (pur rilevanti) questioni, ancora una volta è impossibile valutare il film di Shyamalan se non alla luce del colpo di scena finale, che questa volta ci è parso meno inaspettato e sorprendente del solito. Un colpo di scena che non sconfessa ma amplifica in maniera eclatante gli elementi di base della narrazione ad esso antecedente.
Con The Village Shyamalan mira in alto, al superamento del fantastico attraverso di esso, all'utilizzo della fantasmagoria insita nel genoma della narrazione cinematografica per raccontare il reale ed il concreto. Mirando tanto in alto, sulla base di una struttura che presenta quelle fragilità di cui abbiamo prima parlato, il regista fallisce il colpo. Forse non di molto, ma lo fallisce.
La valenza di un film come The Village, se esiste, è insita in una riflessione sul potere mistificatorio dell'immagine e della comunicazione, sul rapporto tra il potere regalato dalla detenzione della Conoscenza e la situazione di inferiorità cui inevitabilmente relega l'Ignoranza, sulla dissonanza tra obiettivo e risultato e - soprattutto - in un ragionamento di stampo sociologico sulle possibili e legittime o meno reazioni alla complessità del mondo e dei suoi lati negativi. Un ragionamento cui Shyamalan dà soluzioni controverse, da un lato criticando, dall'altra giustificando la scelta isolazionista.
Queste riflessioni e ragionamenti nascono però con fatica, solo al momento in cui il film viene intellettualizzato e dissezionato dallo spettatore curioso di analizzare e capire, di andare incontro al regista. E la grande differenza tra un film che fa pensare ed uno, come The Village, che richiede di pensare, di intellettualizzare per comprendere e apprezzare è grande.
L'impressione è quindi che, nel suo mirare alto, il "genietto" Shyamalan abbia questa volta esagerato in presunzione.
Curiosamente, il regista ha dichiarato che The Village è con Unbreakable - Il predestinato il preferito tra i film che ha finora realizzato.
Proprio quell'Unbreakable che invece era pregno di cultura "bassa" e popolare e che a nostro giudizio, rimane forse la sua opera più riuscita.