Con l'arrivo di Isild Le Besco e del suo Bas-Fonds oggi il concorso di Locarno si prepara a ospitare l'ennesima pellicola dai contenuti scabrosi che farà sicuramente discutere a lungo, ma la giornata di ieri, che ha visto la proiezione di ben tre film in concorso, è stata contrassegnata dal predominio del cinema francofono. Come da tradizione ogni anno il festival di Locarno dedica al tema un momento di riflessione per fare il punto sulla situazione e anche stavolta l'affollata tavola rotonda ha visto la presenza di molti registi e produttori che hanno portato la loro testimonianza riguardo allo stato di salute del cinema francofono.
Per quanto riguarda le pellicole presentate in concorso, è stata la volta di una dura e toccante riflessione sulle dinamiche interpersonali all'interno di nuclei familiari. Gioca in casa lo svizzero La petite chambre, diretto a quattro mani da Stephanie Chuat e Veronique Reymond. Un film toccante ed emotivamente coinvolgente che mette in campo due forti individualità, quella dell'anziano Edmond, burbero e testardo amante delle piante che si ostina a voler vivere da solo e ad apparire autosufficiente di fronte al figlio, e quella dell'infermiera Rose, segnata da un profondo dolore. Il legame che si instaura tra i due va a costituire il nerbo di un film ben recitato e ben girato anche se non particolarmente originale nello sviluppo.
Decisamente fuori del comune è, invece, il canadese Curling. Il tatuato regista Denis Coté utilizza la metafora dello sport per fotografare la solitudine di un padre e una figlia immersi nelle gelide campagne innevate del Quebec. Il curling rapresenta l'utopia impossibile dell'unione, del divertimento, della solidarietà e della soddisfazione personale, tutto ciò che manca al granitico Jean-Francois che, per paura del mondo, cresce la figlia dodicenne da solo, isolato da tutto e tutti, impedendole di frequentare la scuola e costringendola a vivere secondo i suoi rigidi dettami. Nel deserto di solitudine e incomunicabilità che la circonda, la taciturna Julyvonne troverà conforto in un mucchio di carcasse di cadaveri semisepolti dalla neve. Supportato da una fotografia livida e da una regia asciutta e funzionale, Curling rappresenta un modello di cinema che si pone l'obiettivo di stimolare lo spettatore a porsi delle domande senza fornire risposte preconfezionate. La complessità della psiche dei protagonisti e i dialoghi incisivi e mai banali denunciano un'attenzione e una ricchezza a livello di scrittura ribadita dalla cura con cui vengono tratteggiati anche i personaggi secondari, mai inutili nell'economia della narrazione.
Se Curling rappresenta una conferma del talento di Coté, lo stesso, purtroppo, non si può affermare per lo sconclusionato Cold Weather dell'americano Aaron Katz, unica pellicola non francofona della triade. Detective story indipendente che strizza l'occhio al whodunit e ad Arthur Conan Doyle, il film segue le mosse di Doug, giovane e demotivato studente che decide di abbandonare l'università per fare ritorno a Portland, sua città natale, e per riunirsi così alla bella sorella e alla misteriosa ex fidanzata Rachel. Ben presto Doug, grande appassionato di Sherlock Holmes, si troverà a indagare sulla misteriosa scomparsa di Rachel portando alla luce la doppia vita della giovane. L'idea di partenza su cui il regista Aaron Katz costruisce il suo Cold Weather non è delle peggiori. L'investigazione che apparentemente rappresenta il fulcro della storia si rivela, man mano che i minuti scorrono, un espediente per esplorare le relazioni personali tra i vari personaggi, in particolare tra Doug e la sorella Gail, più saggia, ma pronta a lasciarsi trascinare nelle follie dello scapestrato fratello. Lo script ondivago del film rischia, però, in continuazione di distrarre lo spettatore mescolando suspance, dramedy e citazioni che vorrebbero strizzare l'occhio al pubblico più attento, ma che invece risultato forzate (con la pipa di Sherlock Holmes, Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria era riuscito a fare di meglio). Katz ha un buon occhio per le inquadrature e appare chiaro che il suo film è genuino e sinceramente appassionato, ma la sceneggiatura sfilacciata e l'assenza totale di ritmo penalizzano lo sviluppo della narrazione, rischiando di annoiare il pubblico ben prima del coup de theatre conclusivo. La Piazza Grande ci ha riservato ancora un noir, ma stavolta francese. L'Avocat di Cédric Anger è un racconto di malavita organizzata, carrierismo, perdita dei valori e precipitosa (diciamo pure tardiva) redenzione. La storia del giovane avvocato attirato dal denaro facile che si vende per il successo difendendo un clan mafioso è un archetipo nell'universo del thriller. Il film di Anger, il cui script ha un andamento piuttosto prevedibile, non ci sorprende nel plot, ma ci attira più per un certo gusto grafico della violenza e per le ottime interpretazioni. A incarnare il giovane Leo è, infatti, il Leonardo DiCaprio francese Benoit Magimel, volto pulito e sguardo limpido, ottimo e diligente nel ruolo dell'avvocato ingenuo e irresponsabile anche se manca di quel pizzico di carisma in più che gli permetterebbe di reggere interamente sulle proprie spalle un film. Stavolta ad affiancarlo vi sono ottimi comprimari, a partire dall'istrionico Gilbert Melki, che interpreta il nevrotico boss Paul Vanoni, a Eric Caravaca, presente anche nel concorso internazionale con La petite chambre. Da sottolineare la presenza del regista Barbet Schroeder nel ruolo di un anziano avvocato privo di scrupoli. L'avocat è un film che convince a metà per la discontinuità che lo caratterizza. A una prima parte piuttosto lenta e verbosa ne segue una seconda, decisamente più emozionante, in cui si concentrano gli snodi narrativi principali. Con una maggior attenzione al ritmo il film sarebbe stato un ottimo crime noir, visto il gusto visionario di Anger per la violenza e vista la sua capacità di creare scene di grande suspence. Capacità che purtroppo, stavolta, ci viene mostrata solo a tratti.