Meglio accontentare tutti. Questo sembra essere stato il motto dei giurati della kermesse svizzera, a giudicare dal Palmares attribuito - si vocifera - dopo un'interminabile discussione. Curioso vedere come a vincere il premio più prestigioso, il Pardo d'Oro come miglior film, sia l'outsider cinese She, a chinese, l'unica tra le pellicole premiate a non far parte della rosa dei possibili vincitori pronosticati dalla critica. Cina pigliatutto, come in ogni festival che si rispetti. Un premio, tutto sommato, sufficientemente meritato visto che il film si caratterizza per la ricerca di un proprio stile personale mescolando la tipica eleganza meditativa orientale a un montaggio moderno e a un uso sapiente della splendida colonna sonora. A raccontare la storia di una donna in cerca, l'irrequieta Mei, è intervenuta la sensibilità femminile della regista e scrittrice cinese trapiantata a Londra Xiaolu Guo, la quale ha impresso nella narrazione quel tocco di profondità e originalità che deve aver convinto la giuria ad attribuirle il premio più prestigioso preferendo il film cinese, ma di produzione europea, ai favoriti Akadimia Platonos, Nothing Personal e Frontier Blues.
Salomonicamente ai primi due film citati vanno i premi (di consolazione?) per le migliori interpretazioni. Straordinario il malinconico sbruffone greco Antonis Kafetzopoulos, struggente, divertente, capace di sostenere a lungo la macchina da presa sul suo sguardo da cucciolo bastonato mentre, dal suo terrazzo/prigione situato sopra l'emporio che gestisce, osserva la notte greca con l'hard rock degli Status Quo sparato a tutto volume nelle orecchie. Una storia di amicizia, intolleranza, incomprensione e solidarietà ben interpretata anche dal resto del cast, di cui Kafetzopoulos si fa rappresentante, per un film che avrebbe meritato qualcosa in più. Altrettanto straordinaria l'intensa e selvaggia Lotte Verbeek, giovane attrice olandese dai capelli rossi che si affaccia sul grande schermo con la grinta di una tigre tenendo testa a un veterano di talento come Stephen Rea in un confronto emotivo che identifica il cuore del film, premiato come miglior opera prima. Meritati, anche se non particolarmente coraggiosi, i due premi al russo Buben.Baraban (premio speciale della giuria e premio per la miglior regia), film di solida impostazione post-sovietica in cui spicca l'interpretazione di un'altra possibile candidata al premio come miglior attrice, l'ottima Natalya Negoda. Restano purtroppo a bocca asciutta il doloroso L'Insurgée il quale, nonostante l'intelligente analisi della relazione che si instaura tra i due straordinari interpreti, non è stato preso in considerazione dalla giuria, ma anche il delicato Frontier Blues, ottimo candidato al premio speciale. In una Piazza Grande dalla qualità decisamente discutibile il pubblico svizzero premia la commedia nazionale Giulias Verschwinden di Christoph Shaub, che vede nel cast la gloria locale Bruno Ganz, preferendola agli americani 500 Days of Summer e La custode di mia sorella, mentre il Variety Piazza Grande Award va al tedesco Same Same but Different, ispirato a una storia vera e interpretato dal giovane talento David Kross. Infine un premio anche all'Italia, assente dal concorso, ma presente con opere interessanti nelle sezioni collaterali, in particolare nei Cineasti del Presente, sezione da sempre ricca di pellicole originali, creative e fuori dagli schemi del mercato. Il premio speciale va, infatti, al documentario di Stefano Savona Piombo fuso, che testimonia il massacro operato a Gaza dagli israeliani lo scorso anno. Viaggio insopportabile negli orrori della guerra, testimonianza preziosa perché capace di fotografare, senza sovrastrutture, gli orrori del conflitto. Il bilancio complessivo della rassegna pende, però, verso il negativo e piange il cuore dirlo visto che questa è l'ultima edizione diretta da Frédéric Maire, un direttore di grande capacità che in questi anni non si è mai risparmiato - neppure fisicamente- o tirato indietro di fronte a scelte coraggiose. Che il concorso sia lo specchio dei tempi che corrono? Non si vuole sentir parlare di ezione della crisi, e allora non parliamone, ma è impossibile non rilevare la qualità media del concorso che quest'anno si è assestata sulla mediocrità offrendoci una rosa di quattro, cinque pellicole veramente buone e poche innovazioni sul piano stilistico. Temi ricorrenti: la fuga dalla propria condizione, soprattutto da parte di figure femminili alla disperata ricerca dell'indipendenza pronte a pagare un prezzo che comporta dolore, umiliazione, sacrificio, perdita. Anche la condizione adolescenziale non si presenta molto più rosea, ma si caratterizza per un'incapacità a comprendere e relazionarsi al mondo degli adulti, barriera infranta in parte solo dalla rabbiosa protagonista de L'Insurgée, una felice eccezione che conferma la regola. In tanta cupezza le due sole commedie capaci di elevarsi dalla media e di strappare un sorriso in un concorso talvolta pretenzioso e sfacciatamente pseudo-autoriale provengono da due cinematografie marginali (quella greca e quella iraniana) che sfruttano con sapienza il loro essere terra di confine e, in quanto tale, crogiuolo di culture, di etnie, di sensibilità culturali diverse che spesso entrano in conflitto. A pesare come un macigno sul bilancio complessivo del festival non è, però, tanto il concorso, per sua natura indipendente e poco spettacolare, quanto la bassissima qualità dei lavori visti nella Piazza Grande, sezione sulla carta più ricca di glamour costruita per piacere al grande pubblico. Dopo un'apertura scoppiettante con (500) Days of Summer abbiamo assistito alle cadute libere di Les derniers jours du monde o del poco riuscito noir svizzero La valle delle ombre. Non che il pubblico sia mancato, la media spettatori è stata sempre piuttosto elevata, se si esclude il picco negativo - solo 2500 spettatori - della Manga Night (interessante una retrospettiva di anime e manga, ma inserli in tutte le sezioni del festival forse si è rivelata una scelta un po' troppo ardita). Il festival si prepara ora a cambiare corso con il giovane e volitivo Olivier Père.Cosa ci riserva il Locarno del futuro non si sa, ma la speranza è che il nuovo direttore aggiusti il tiro nel rispetto del passato, senza trascurare tutte le innovazioni positive introdotte dal coraggioso Maire, al quale va comunque tutta la nostra stima per l'eccellente lavoro svolto in questi anni.