Lo specchio frantumato del non-talento
Un grosso punto interrogativo il trentaquattresimo film di Pupi Avati che fin dal titolo, Ma quando arrivano le ragazze?, vuole suggerire un presente d'incertezze comune a tanti ragazzi di una certa età. I ventenni ritratti qui sono due ragazzi bolognesi, Nick (Claudio Santamaria) e Gianca (Paolo Briguglia), l'uno trombettista, l'altro sassofonista, che si incontrano per caso e su un terreno comune, l'amore per la musica jazz, costruiscono la loro amicizia, coltivandola morbosamente giorno dopo giorno, finché il lampo di una sera svela loro la realtà di un rapporto impari, nella quale le ambizioni dei due sono destinate, per via di quella drammatica differenza che c'è tra talento e passione, ad esiti differenti che vedranno Nick diventare un astro, Gianca un buco nero, indistinguibile nell'enormità dello spazio. Poi arrivano le ragazze, e con loro l'occasione per il riscatto, ma per Gianca anche questa assumerà la forma della sconfitta, sancendo definitivamente la fine di un'amicizia e il crollo di un sogno, consegnandolo ad una vita di finto amore e banale quotidianità.
Pupi Avati imbandisce senza alcun pudore un ricco banchetto di ammuffiti stereotipi: dal reietto che diventa una stella della musica alla bella giovinetta borghese insoddisfatta, dal padre che riversa sul figlio le sue frustrazioni al ragazzo che si affanna per avere una vita perfetta, con l'incubo di una carriera da commercialista che gli alita sul collo. Accanto a queste una manciata di altre storie, di personaggi più o meno falliti che il regista emiliano tratteggia con mirabile affetto per poi abbandonarli al loro destino, doppiamente e beffardamente perdenti. Ma qualcosa di buono c'è in questo film ed è l'impietosa riflessione che Avati fa sul talento, o meglio sulla mancanza di talento: inseguire un sogno, accarezzarlo fin quasi a credere di vederlo concretizzarsi, per poi ritrovarsi fra le dita la polvere di una cometa già lontana, che lascia dietro una lunga scia a ricordare che la mediocrità (artistica) è una pesante palla al piede che non permetterà mai di volare fin dove si vorrebbe.
La regia di Avati si sofferma inesorabile sul dettaglio dei fraseggi alla tromba di Santamaria che fa quel che può per rendere credibile il suo playback sulle peripezie del più grande dei jazzisti italiani, Flavio Boltro, svolgendo tutto sommato il suo compito in modo decoroso. Peccato però che quando si tratti di dare cuore e passione al personaggio riveli tutti i suoi limiti di attore capace ma decisamente poco duttile, che nell'esprimere l'impeto di un talento che gli esplode improvviso dentro tiene sul viso la stessa maschera che ha indossato due secondi prima e che dimenticherà di togliere per tutto il resto della pellicola. Ancora più monocorde l'interpretazione di una Vittoria Puccini che, smessi i panni di Elisa di Rivombrosa, si imbalsama in un personaggio nel quale non riesce mai a calarsi totalmente. Bello il visino, funziona egregiamente in televisione, il cinema è però tutt'altra cosa. Commovente invece la performance di Johnny Dorelli, riesumato dopo tanti anni di assenza dal set cinematografico, che riesce a caratterizzare con grande umanità la figura del padre di Gianca, un uomo ossessionato dalla riuscita del figlio che vendichi in questo modo il suo presunto talento non riconosciuto.
Il limite più evidente del nuovo lavoro di Avati è questo suo cercare ossessivamente di dare alla storia un carattere di universalità, scomodando addirittura la magia delle stelle che vagano nell'universo, finendo però col sacrificare la spontaneità. Il risultato è un piattume generale che fa sì che il film proceda disinnescando una serie di bombe, nel quale i personaggi restano sempre compassati, assolutamente privi di carattere, delle marionette che lasciano che le cose accadano senza far nulla. Un film di giovani per vecchi che torna a colorare di grigio il cinema italiano.