Sono giovani chiamati a essere adulti, e adulti pronti a tornare allo stato infantile, i personaggi di Elena Ferrante. Una galleria umana di donne e uomini talmente psicanalizzati, tratteggiati, da apparire veri, reali. Uno stato di limbo esistenziale racchiuso tra gli spazi di una pagina, nell'attesa di trovare un corpo in cui rintanarsi e rendersi visibili grazie ad attori pronti ad accogliere questi personaggi, rimodellarli, renderli di nuovo vivi.
Ci sono autori che vagano con i loro pensieri, lasciando correre a briglia sciolte ricordi, idee, parole sempre in circolo. E poi ce ne sono altri che hanno la capacità di costruire mondi tangibili, situazioni reali, esistenze quasi materiche. Architetta della pagina, la penna di Elena Ferrante è calce, la sua mano dispensatrice di mattoni pronti a prendere il loro posto nell'edificazione di universi veri, umani, dove l'odore salmastro del mare strabocca dalla pagina, e le parole si odono, non si leggono. La sua scrittura le permette di congelare su carta quello che galleggia tra le pieghe del suo cervello, roccaforte di una fervida immaginazione che si nutre di suggestioni, ricordi, cultura e un'umanità umile, vera, passionale. Quello della Ferrante è un potere quasi divino, che prende in prestito sprazzi di vita veramente vissuta, e angoli di mondi che respirano nel battito di parole strascicate, e pensieri espressi con urla dialettali. Una facilità di racconto e una scrittura immaginifica che si applica perfettamente al linguaggio del cinema e della serialità televisiva, così da vivere sotto nuove forme, e nello spazio di mondi nuovi.
Luoghi reali per storie realistiche
È un universo che sembra nascere da una fucina mnemonica di ricordi personali, di sguardi incrociati, e di pareti toccate con mano, quello della Ferrante. Quelli attraversati dai suoi protagonisti sono luoghi facilmente identificabili, rintracciabili tra le coordinate geografiche di una mappa reale. Un annullamento delle distanze tra l'universo spettatoriale e quello diegetico che enfatizza e intensifica l'afflato di realismo che soffia sul mondo della scrittrice. Camminano, corrono i protagonisti dell'autrice, e così fanno le loro controparti cinematografiche. Non solo circondati, ma abbracciati da paesaggi urbani decadenti, o appartamenti eleganti, i suoi personaggi trovano in questi spazi un ulteriore arto ipertrofico in cui potersi identificare; un prolungamento di sé che funge da anello di congiunzione tra un corpo in perpetuo movimento, che scappa e fugge, e quello e di una città che li attira di nuovo a sé, come un richiamo materno impossibile da ignorare.
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Ricordi che sanno di Napoli
L'opera della Ferrante è sinonimo di Napoli. I suoi rioni, i suoi quartieri si elevano a personaggi a se stanti, corpi urbani che respirano inspirando dolori, fragilità, ed espirando nuovi turbamenti, nuovi percorsi interiori accidentati come ponti in costruzione, e tortuosi come curve stradali. E anche se le sue rive vengono sostitute da battigie straniere - come avviene con La figlia oscura - l'odore salmastro che inebria lo spettatore sembra ricordare quello delle acque che bagnano quella Napoli a cui tutto ritorna, e nelle quali rigettarsi per rinascere. E proprio come quei corsi acquatici che lambiscono tanto le pagine, quanto le inquadrature di ogni adattamento, anche i personaggi della Ferrante sono liquidi, esseri umani chiamati a mutare le proprie forme e i propri spazi interni, adattandosi ai vari contenitori sociali, culturali, economici e personali che li attorniano. Ossessionati dal controllo proprio e altrui, i personaggi dell'universo della Ferrante si muovono verso spirali autodistruttive che chiamano in causa il dominio di un inconscio mai domato, né compreso.
La vita reale del dialetto
Manipolatrice dell'immaginazione e dominatrice della parola, nell'opera della Ferrante la lingua non è mai elemento accessorio, ma entità rivelatrice di aspirazioni sociali e slanci di carattere borghese. Si pensi all volgare dialettale di Lila (L'Amica Geniale) che contrasta con un italiano più asciutto, altisonante di Lenù; al napoletano che fa timidamente capolino nel parlato colorato di Giovanna (La vita bugiarda degli adulti) e che stride con il dialetto puro, viscerale di zia Vittoria; oppure alla lingua straniera, che esacerba le differenze con un mondo a cui aspira Leda Caruso (La Figlia Oscura), riportandola a un passato che tende a dimenticare. Ciò che separa il linguaggio di chi cammina tra i pavimenti asciutti di case borghesi, e i viali bagnati delle zone popolari è il dialetto, spirito invisibile che da quella koinè urbana si fa perfetto corrispettivo di un'interiorità rivelata per una scelta gergale.
Ogni scarto linguistico non è mai casuale, ma sintomo di una differenza tra personaggi che non accettano la propria appartenenza rionale, periferica e terrena, e quelli che parlano di pancia senza elucubrazioni mentali. Sono i personaggi più genuini, a tratti respingenti, passionali, volgari (come la lingua che masticano e sputano con onestà) quelli che vivono del proprio dialetto. Gli altri tentano di allontanarsi dalle loro radici, puntano in alto, tentano di aggrapparsi alla bellezza delle parole; sono istruiti, famelici di conoscenza, si riempiono la bocca di concetti profondi, espressi con attenzione, soppesando ogni lettera, ogni respiro. Ma l'anima verace napoletana, quella di borgata, è dentro di loro, ed è pronta a fare la sua comparsa macchiando un italiano che si fa ibrido. Ne è un esempio Andrea Tarda, papà di Giovanna ne La vita bugiarda degli adulti (interpretato magistralmente da Alessandro Preziosi nella serie Netflix) il cui tono di voce pacato, e i termini sempre ricercati, lascia ben presto spazio a quella napoletaneità inutilmente silenziata una volta che l'ira prende il sopravvento e il controllo viene perduto.
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L'amore è opaco, come le finestre dei cessi
Capricciosi, saggi, sognatori e timorosi per un passato tenuto nascosto, o per un futuro incerto: i personaggi di Elena Ferrante sono soprattutto umani; macchiati di difetti, antipatici, ma anche coraggiosi, attraenti. Non esseri in serie, ma diversi, eterogenei, figli di nature divergenti, e per questo estremamente reali. Le parole dell'autrice sono tasselli di DNA che si svestono di inchiostro per ammantarsi di epidermide e vene, polmoni e cuori che battono. Serie dopo serie, film dopo film, da Valeria Golino, a Olivia Colman, passando per Carmela Pecoraro a Gaia Girace ogni tassello di questo puzzle umano rivive sullo schermo in tutta la sua profonda intensità. Sfuggenti e concrete, le donne di questo microcosmo accarezzano il volto dei propri spettatori, o li colpiscono in pieno volto. Dopotutto, l'universo della Ferrante nasce sotto il segno del genere femminile: una galleria di donne frammentate, che si auto convincono di sentirsi appagate, complete, per poi scontrarsi con i segni di una frattura interna pronta a scricchiolare di nuovo. Non vogliono essere perfette, non sono principesse, ma conglomerati di difetti, incubi, fragilità e passioni, spesso cause di lotte e scomparse.
La forza di una scomparsa
Già, perché tutto nel mondo della Ferrante parte da una scomparsa, da un'assenza improvvisa di persone amate, o ammirate, o di oggetti visti come riempitivi inanimati di una falla emotiva pronta a trascinare verso il baratro le proprie protagoniste.. E così la mente lavora, l'onda del ricordo indietreggia, lasciando riaffiorare il corpo annaspante del proprio passato ancora vivo. Le sue protagoniste si muovono nel mondo silenti, in punta di piedi, come fantasmi di eventi interiormente terribili, condannati a ripetersi all'infinito.
Che sia la morte della madre e l'incubo di un abuso mai accettato (l'Amore molesto), o le sofferenze interiorizzate all'ombra del tempio costruito su forma e immagine della propria migliore amica (L'amica geniale), oppure il ritrovamento di una bambola pronta a farsi associazione oggettiva di mancanze materne, e tradimenti famigliari (La figlia oscura), tutto nell'universo circostante delle proprie protagoniste rimanda a una loro "smarginatura", una perdita, cioè, interiore dentro un magma che le affonda, silenzia, schiaccia rendendole inafferrabili, senza contorno. E allora è giusto che tutto parta da una scomparsa, perché è solo nella ricerca di qualcosa, o di qualcuno, che si può ritrovare anche se stessi, in un'avventura senza happy ending, ma fatta di finali sospesi, proprio come sospesa è la vita degli adulti, a volte geniale, a volte molesta, a volte bugiarda.