La vita senza armi
Quante solitudini nel mondo, quante persone che si perdono e non riescono più a trovarsi o a farsi trovare. In Continental, un film sans fusil del canadese Stephane Lafleur, presentato a Venezia nelle Giornate degli autori, ancora una volta è la solitudine, che scolorisce le vite degli esseri umani più tormentati, ad essere indagata con i soliti lunghi silenzi, ed i percorsi col respiro trattenuto dentro spazi vuoti d'affetto, che caratterizzano quello che può essere definito ormai un vero e proprio filone del cinema contemporaneo, tanto caro soprattutto ai cineasti orientali, ma che quando maneggiato da registi senza occhi a mandorla gode di alterne fortune. Qui tutto parte dalla scomparsa di un uomo che, svegliatosi su un autobus completamente deserto, ai margini di una foresta, finisce col consegnarsi ad un'oscurità pronto a divorarlo e a cancellarlo dal mondo, un evento che collegherà in qualche modo quattro differenti storie di altrettante persone imprigionate dentro i propri corpi scomodi, anime che sfuggono di continuo la possibilità di cambiare la propria vita e che non riescono a fermare lo scorrere di quel tempo che li sta invecchiando, inaridendo, inesorabilmente. E non c'è differenza tra vecchi e giovani, tutti avviati verso un desolante niente che non lascia vie di scampo, una vita senza armi per combattere in vista di qualcosa di migliore.
Facendo muovere i propri personaggi dentro non-luoghi privi di alcun calore (la stanza d'albergo, la reception, lo studio dentistico), Lafleur rappresenta il tempo morto che strozza queste vite piccole attraverso lunghi monologhi muti o dialoghi timidi e svogliati che si fermano sempre qualche parola prima delle emozioni rivelate, che non superano mai il limite del pudore. E i suoi protagonisti in quegli spazi freddi, che rappresentano sempre una "soglia", si nascondono, spiano, dissimulano, non riuscendo mai a stabilire un contatto reale con chi sta loro di fronte, privati d'ogni slancio vitale e convinti di non avere alcuna possibilità di essere felici. L'amore, la vita vera che carica le spalle di responsabilità, il sesso, restano sempre fuori campo, ad un passo eppure irraggiungibili, soltanto spiati attraverso una parete o la cornetta di un telefono. Il regista però non sa gestire i tempi e, nonostante il film sia ricchissimo di eventi, l'impressione alla fine è quella di non aver visto molto, trascinati anche noi in quelle esistenze svuotate di ogni emozione, di un brivido che valga la pena di essere colto, fondo di un barile che non s'intende raschiare. Alla fine un sorriso sui loro volti stanchi prova ad alleggerire le cose, ma è solo un bel finale che chiude un film dimenticabile. Niente fucili nel film di Lafleur, ma neppure sensazioni degne d'essere anche solo percepite, solo la messa in scena di un vuoto destinato a non lasciare tracce.