Recensione Sbirri (2009)

In un'inedita compenetrazione di documentario e fiction, Burchielli indaga sul rapporto sempre più complesso tra i giovani e la droga, e parallelamente esplora le angosce di un padre moderno che, preso da se stesso e dal lavoro, teme di non conoscere davvero suo figlio.

La realtà supera la fiction

Tra le tante anime del cinema c'è anche quella che vuole raccontare la verità. Ma, nonostante tradizionalmente per dire la verità l'arte utilizzi tutte le sofisticazioni tipiche della menzogna, negli ultimi anni questa linea di condotta si è affiancata ad un'altra, più cruda ed immediata, che si propone semplicemente di documentare la realtà, così come si svolge, spesso in maniera silenziosa, sotto i nostri occhi. E' in questo modo che, grazie a personaggi come Michael Moore e Al Gore, siamo venuti a conoscenza di alcune delle conseguenze più inquietanti e pericolose del nostro stile di vita. Ed è ancora un documentario che ci ha aperto gli occhi sulla drammatica evoluzione, avvenuta nell'esiguo spazio di pochi anni, del consumo di droga tra i giovanissimi: si tratta di Cocaina, di Roberto Burchielli, che si ripropone ora con un film di nuovo incentrato sugli stessi scioccanti argomenti, ma che al fortissimo impatto delle vicende reali unisce stavolta una cornice di pura finzione cinematografica.

A offrire lo spunto di ricerca e riflessione su un mondo, quello adolescenziale, spesso ignorato o tutt'al più edulcorato dalla cecità dei grandi è la storia di Matteo Gatti, che si trova a dover piangere il figlio, vittima di una pasticca di ecstasy, attanagliato dal dubbio di non averlo mai conosciuto veramente. Guidato dalla volontà di conoscere, anche se troppo tardi, la realtà di suo figlio e di capire le proprie eventuali responsabilità di genitore, Matteo, noto giornalista investigativo (ed ispirato alla figura reale di Fabrizio Gatti, inviato de L'espresso), deciderà di realizzare un servizio sul piccolo spaccio milanese, quello che si gioca tra pub e discoteche sui Navigli, in cui offerta e domanda hanno in comune la tenerissima età. E' a questo punto che la finzione si intreccia con la realtà: Matteo, o meglio Raoul Bova, inizierà in prima persona a prendere parte a vere e proprie azioni di Polizia, che spaziano dal pedinamento, all'arresto, all'interrogatorio dei rivenditori "al dettaglio" di pasticche e polvere bianca. E, per lui come per chi guarda dall'esterno, lo spettacolo si rivelerà sconcertante allo stesso modo: ragazzini delle scuole medie che ammettono candidamente di aver fatto uso di cocaina, commesse che affermano che "chi muore per una pasticca è uno sfigato" e signore perbene secondo le quali non c'è niente di male a sniffare ogni tanto, e che non hanno mai pensato che magari il loro amante e pusher vende la droga a ragazzi dell'età dei suoi figli, sono solo alcuni degli esempi di ignoranza e solitudine che la pellicola ci fornisce.

La formula adottata da Burchielli ancora una volta colpisce nel segno: è impossibile restare indifferenti a queste storie, in cui spesso il supposto carnefice è ancora più disperato della vittima e in cui quella che viene normalmente classificata come trasgressione assume invece i connotati della più ovvia, e per questo anche più complessa da contrastare, normalità. Dimostrando di saper padroneggiare con maestria la tecnica del documentario, Burchielli ci racconta in parallelo il lavoro delle persone che cercano di smantellare questo stato di cose, lasciando che, in risposta alle domande poste da Matteo/Bova, a parlare siano anche le loro angosce e le loro personali riflessioni sull'argomento. In fondo, chi meglio di loro può parlare senza ipocrisie, ma anche senza rassegnazione: per quanto una manciata di pasticche e qualche bustina di cocaina sembrino poche, si tratta sempre di decine di vite messe al sicuro, sera dopo sera, il che non è certo cosa da sottovalutare. L'aspetto documentaristico del film è quindi certamente riuscito: il meritevole intento dell'autore di fornire una nuova consapevolezza sulla reale entità del problema, ma anche di testimoniare che, grazie all'impegno di pochi virtuosi (purtroppo mal supportati dai piani alti), non tutto è perduto trova nel racconto della vita reale e in un montaggio che non ci risparmia alcuna crudezza il miglior veicolo possibile. E' nella parte più strettamente intima che si vedono tutti i limiti di una sceneggiatura che, per stessa ammissione dei realizzatori, non si avvale di un vero e proprio copione: i confronti tra Matteo e la moglie Sveva soffrono di una recitazione esasperata, nella quale la carica emozionale è soverchiata da un'eccessiva teatralità. A rendere meno scorrevoli le sequenze "di fiction" è anche l'uso atipico della macchina da presa che, forse nel tentativo di non creare uno stacco eccessivo con l'inevitabile "effetto mosso" che contraddistingue le parti di documentario, produce inquadrature traballanti che creano uno spiacevole effetto di straniamento nei confronti dell'ambiente domestico in cui sono realizzate. L'impressione generale è di una regia stilisticamente immatura che con ogni probabilità, grazie ad un approccio più modesto e canonico, avrebbe ottenuto un risultato più efficace.
Resta quindi l'interrogativo sulla reale necessità di appesantire un documentario dal contenuto interessante e tecnicamente ben realizzato con un contenitore posticcio e nemmeno troppo necessario. Certamente una pellicola d'azione, per di più con un protagonista particolarmente gradito ai giovani, è un prodotto molto più appetibile per l'industria cinematografica rispetto ad un normale film d'inchiesta, e, considerato l'argomento trattato, una maggiore visibilità non può che rappresentare un fatto positivo. Sarebbe però auspicabile che i colossi della distribuzione in Italia si slegassero da una visione gerarchica dei prodotti cinematografici ed accordassero la stessa dignità a tutti i generi (posto che abbia ancora senso parlare in questi termini): ne guadagneremmo tutti in assortimento e qualità.

Movieplayer.it

2.0/5