La psicosi del Potere
Dal momento che il film che andiamo a recensire si occupa delle pratiche del Potere, è necessario tentare di definire queste ultime almeno il più possibile.
Ebbene: il Potere è un meccanismo che regola, al livello microcosmico dei rapporti interpersonali tra due o più individui, le relazioni di autonomia e dipendenza che sostanziano la pratica di quegli stessi rapporti; e, d'altro canto, al livello macrocosmico della società, il Potere regola i nessi di autodeterminazione e asservimento che si dispiegano all'interno di una rete complessa di soggetti, situazioni, azioni e reazioni. È con l'uomo che il meccanismo del Potere raggiunge gradi di perfezione espressiva sconosciuti al mondo degli altri esseri viventi: al punto che l'uomo stesso, come individuo - come uno, insomma -, è soggiogato, in un paradosso logico tra i più inquietanti, persino a se stesso o, per dirla con Freud, ad una qualsiasi di quelle istanze - l'Io, il Super-Io e l'Es - che fanno dell'uomo un equilibrio sempre instabile e in via di ridefinizione. In questo distendersi di livelli, il Potere assume, agli occhi dell'essere umano - che, pur, lo crea e ne vive -, una tale varietà di sembianze da non esser quasi più discernibile e decodificabile, nel groviglio di implicazioni psicologiche, sociali, culturali, politiche, economiche e militari che finiscono per caratterizzarlo. La complessità delle manifestazioni peraltro sempre simultanee - alla stregua d'un'immagine perennemente cangiante e perciò nemmeno percepibile come totalità - fa eternamente il gioco del Potere, che appare sempre come specie discreta e parziale - istanza psicologica, classe sociale, ideologìa, partito politico, gruppo finanziario, associazione armata - e mai come genere unitario, cosicché ne risulta impedita non solo la corretta identificazione ma anche - e di conseguenza - la riconoscibilità della sua debolezza profonda. D'altra parte, il Potere si esprime esternando il contrario della debolezza: l'energìa, la resistenza e il dinamismo che lo mettono in grado di aggredire ogni piano della realtà. In tal senso, il Potere è una macchina desiderante che tende a possedere il più possibile della realtà che gli si para dinnanzi. Per sentirsi legittimato, il Potere deve cancellare dal proprio orizzonte il senso del limite _ed estendere la propria forza al massimo concepibile, in termini spaziali - nessun frammento di territorio può star fuori dalla sua giurisdizione - e in termini temporali - non c'è attimo del tempo, soggettivo e/o oggettivo, che può sfuggire al suo governo. Il Potere è un _organismo che si nutre indefinitivamente del suo crescere e propagarsi. Suoi strumenti sono la conoscenza diffusa della realtà - una prima occhiata a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto: le intercettazioni telefoniche e la necessità, espressamente dichiarata dal protagonista, di sapere tutto - che si trasforma in controllo e, nel caso il controllo evidenzi zone del reale che tendono a fuggire dall'orbita del Potere, la repressione. Dunque, il Potere è, per sua natura, nevrotico, nella misura in cui non può accettare imperfezioni e zone d'ombra; e, laddove deficienze e mancanze giungano a rivelarsi, il Potere non può che convertire la nevrosi in psicosi, nello sforzo di dover reinglobare a tutti i costi ciò che fuoriesce: nella pratica di questa fatica, il Potere non lascia nulla di intentato e percorre vie le più inesplorate fino, addirittura, a pervenire all'assurdo logico di negare se stesso per riaffermarsi.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, settimo film di Elio Petri, girato alla fine degli anni Sessanta, racconta, per l'appunto, la psicosi del Potere. E siccome l'analisi qui è significata nell'ambito non di un trattato sociologico ma di una narrazione con personaggi espressa per immagini in movimento - un film, appunto -, è giocoforza che il Potere, uso a mostrare connotati impersonali, assuma, invece, le sembianze di uno dei suoi rappresentanti, il capo della Sezione Omicidi della questura di Roma, interpretato da un Gian Maria Volonté al massimo delle sue capacità mimetiche; eppure il personaggio non ha nome, proprio perché, infine, rappresenta non tanto se stesso ma quel Potere, appunto, di cui è nulla più che semplice metonimia.
Il dottore del film - così è identificato - è uomo oltremodo autorevole: esercita il Potere con mezzi spionistici e repressivi e, nel racconto di questo esercizio, il film non indulge a procedimenti ellittici ma, anzi, esprime, nel dettaglio, i metodi che il Potere utilizza. Si notino, in tal senso, la sicumera gestuale del personaggio, sempre sopra le righe; quel suo gridare ininterrotto in una lingua cadenzata di pura invenzione - una sorta di volgare illustre d'origine centro-meridionale; i ghigni nevrotici che percorrono il volto del dottore, come se costui fosse perennemente attraversato da una carica energetica che gli impedisca di raggiungere qualsivoglia forma di relax; e ancora: la perizia emblematica dei punti di vista della m.d.p., inclinata dal basso verso l'alto quando si tratta di esaltare i volti e le smorfie del Potere e dall'alto verso il basso quando, invece, si deve inquadrare, in primi piani pietosi e sarcastici, le facce delle vittime di turno, immortalate, quasi sempre, nel momento in cui patiscono l'oltraggio supremo, l'interrogatorio vessatorio e antiprocedurale. E si pensi, anche, alla dovizia di particolari con cui Petri rappresenta i luoghi e gli spazi del Potere: la cupezza delle camere sotterranee destinate agli interrogatori; l'indistinguibilità degli uffici di polizia - spazi qualsiasi di un unico spazio-mostro che è il Palazzo; la segregazione alla luce di quello scantinato-girone infernale deputato alla pratica persecutoria dell'intercettazione telefonica; la violenza brutale dell'uso scenografico dei furgoncini della celere e delle celle di sicurezza, al cui interno gli oppositori, o ritenuti tali, sono ammassati come carne al macello. Petri, insomma, prendendo spunto dalla vicenda paradossale del dottore - che ora analizzeremo -, non lesina particolari nel raccontarci come il Potere si dispieghi, giorno dopo giorno, nel ripetersi eterno di azioni e comportamenti riconducibili alla ritualità della liturgia.
Ma il dottore, suo malgrado, ha esperito una falla, che gli ha aperto una via alla cognizione della debolezza del Potere: nello specifico, ha intrapreso una relazione con una giovane e bella donna libertina e sadomaso, Augusta Terzi - interpretata da Florinda Bolkan - , la quale, in un primo momento, ha solleticato il senso di potenza quasi divina cui il dottore fa riferimento quotidiano per giustificare tutto di se stesso. Lo ha cercato al telefono, si è fatta fotografare in pose da vittima di cronaca nera e lo ha istigato, più volte, all'attività delittuosa in virtù di un assioma che il poliziotto non può che condividere: «siccome sei tu che conduci le indagini, tu puoi commettere qualsiasi delitto, tanto nessuno penserà a te». Augusta, dunque, funge da specchio di Narciso e non fa che ribadire, in principio, quelle qualità cui il dottore è legato come fossero un principio d'identità: l'onnipotenza e l'insospettabilità. Ben presto, però, il masochismo di Augusta svela il suo presupposto complementare, e cioè la tendenza al sadismo; la ragazza comincia a prendersi gioco del dottore, sbeffeggiandolo durante i convegni amorosi a forza di sfottò sull'odore di muffa e stantìo che emana dai poliziotti; lo tradisce, un giorno, e in modo tale che lui possa accorgersene, con un giovane anarchico; e - offesa delle offese - lo taccia, durante un'accesa discussione, di «incompetenza sessuale», «perché tu fai l'amore come i bambini... non sei niente... tu non sei niente... sei solo un bambino...». Non c'è nulla di più insostenibile, per il dottore. Così dicendo, la ragazza pone in discussione non solo e non tanto la vigorìa dell'uomo ma, più nel profondo, la convinzione intima del poliziotto - rappresentante del Potere -: quella d'essere in possesso e di detenere il controllo. Augusta diventa, nel giro di un attimo, una variante impazzita nella fantasmagorìa d'onnipotenza del Potere; e, quindi, va eliminata. Il dottore, a inizio film, la uccide, disseminando il luogo dell'assassinio - la casa di lei - di indizi che debbono provare la propria colpevolezza. Nell'appartamento ricolmo di veli, specchi e scenografie barocche, quasi fosse un tempio fuori dal mondo e - quindi - fuori dalla giurisdizione del Potere (d'altra parte, l'indirizzo della casa è «via del Tempio n° 1»), si consuma non solo e non tanto l'omicidio di una donna quanto, piuttosto, la scissione psicotica del Potere, che, da quel momento, dentro un ritmo incalzante segnato da accadimenti presenti concernenti l'indagine, flashback che informano lo spettatore sui dettagli e le modalità dell'infausta relazione e flashforward che proiettano nel possibile gli esiti del delitto e dell'investigazione, sembra muoversi in due direzioni diverse e contrastanti, evidentemente schizoidi: l'una tesa a dimostrare l'assoluta insospettabilità del Potere - l'assunto del titolo del film - e l'altra, invece - in una divaricazione che segna, da sola, l'insospettabile debolezza del Potere -, orientata masochisticamente ad una lenta ma progressiva dilatazione di quella falla che, già al momento di essersi presentata, aveva distrutto ogni principio d'Autorità. Sino a che, nel dipanarsi di questa bidirezionalità paranoica delle azioni del dottore, non interverrà, alla fine del film, il Potere stesso, come ente impersonale, eppure, ancora una volta, metonimicamente rappresentato nelle persone dei superiori e dei colleghi di polizia. Il Potere dichiara vuota di senso la falla che si era aperta; nega o elimina fisicamente ogni prova di delitto. Il Potere riafferma se stesso, «nell'eternità di una legge scolpita nel tempo», come aveva declamato il dottore stesso durante il discorso d'insediamento alla guida dell'Ufficio Politico; e demolisce qualsivoglia indizio che possa anche solo far pensare ad un'ipotetica fallibilità. Analisi complessa, ma lucida e rigorosa, quella di Indagine, e non solo sui meccanismi del Potere alla fine degli anni Sessanta: sui meccanismi del Potere tout court, diremmo noi.
Molti commentatori, però, han fatto notare come al rigore dell'analisi socio-politica non corrisponda uguale disciplina della forma; e hanno argomentato che il punto debole del film starebbe proprio nel suo «stile merceologico» - così diceva Miccichè -, e cioè nel suo indulgere a modi della narrazione, dell'inquadratura e del montaggio tipici del giallo o thriller all'italiana; nella sua spettacolarità, insomma, che inficerebbe la validità stessa dell'analisi. Per noi, invece, vale il discorso opposto. La spettacolarità della pellicola cattura l'attenzione e fa sì che l'argomento trattato possa essere accolto da chi vuole approfondirlo ma anche da chi, volendo semplicemente gustarsi un film ben fatto, non potrà, poi, non porsi alcune domande. Tanto più che, a ben vedere, la forma, pur sussumendo canoni del giallo, non ci sembra affatto così scontata e banale. Il film tende vieppiù, e sempre di più man mano che passano i minuti, a una rappresentazione grottesca della realtà, laddove l'aggettivo sta a significare, per l'appunto, quella straordinaria cifra stilistica in base alla quale una materia apparentemente levigata e limpida mostra, d'improvviso, il suo lato cosparso di imperfezioni e rughe, sinuosità e grinze; il suo aspetto aggrottato, insomma. All'obbiettivo di Petri è sempre applicato uno zoom in forte avvicinamento, che schiaccia l'immagine, e scopre, sulle superfici dei volti e degli ambienti, le mille deformità delle apparenze. E cosa c'è di più deforme e grottesco, allora, della rugosità della voce, dei gesti e del volto di Volonté e di mille altre inquadrature degli altri personaggi e dell'ambiente? Questa rugosità della forma finisce per sembrarci del tutto omologa, e degna compagna, di un discorso di denuncia sui meccanismi del Potere: discorso che tende a esplicitarsi, per l'appunto, evidenziando, di quel Potere, il lato vizzo, ruvido e caricaturale.