La prigione del corpo
David Lynch realizza nel 1980 il secondo capolavoro in bianco e nero, in cui ritorna, a tratti, il gusto visionario già anticipato nell'angosciante Eraserhead e la sua attenzione-ossessione per la deformità.
Per Lynch nulla è mai come appare, dietro la superficie ordinaria delle cose e della realtà si nasconde sempre altro, incubi e mostri fanno capolino da scene di ordinaria esistenza, rivelando la natura del male in un alternarsi continuo di luce-ombra, veglia-sogno, realtà cosciente e subconscio.
In The Elephant Man Lynch compie un lavoro inverso rispetto agli altri film, ci mostra l'orrore e la mostruosità in tutta la sua crudezza per poi squarciare il velo dell'apparenza e mostrarci la natura nascosta di un animo gentile e delicato.
John Merrick (John Hurt), realmente vissuto, nato in Inghilterra nel 1862 e morto nel 1890, è un uomo affetto da neurofibromatosi: ha sembianze mostruose, il cranio sproporzionato e ricoperto di protuberanze da conferirgli l'appellativo di "uomo elefante", il corpo interamente ricoperto di escrescenze tumorali, un braccio più lungo dell'altro, una voce simile ad un grugnito animale, è affetto da numerose altre patologie che gli impediscono persino di dormire sdraiato su un letto, causa il rischio di morte per soffocamento.
John Merrick vive sotto il dominio di un truce ed insensibile uomo che lo espone nelle fiere come fenomeno da baraccone, trattato come un animale, esposto al dileggio e alla ripugnanza dei visitatori, privato totalmente della dignità umana e picchiato a sangue ogni qualvolta non esegue gli ordini del padrone.
Il giovane ed ambizioso Dr. Frederick Treves (Anthony Hopkins) decide di toglierlo dalle grinfie del crudele proprietario per condurlo nella clinica dove lavora, gesto apparentemente nobile e caritatevole, visto che dimostra essere il primo uomo a trattare John Merrick come un essere umano e non come un animale-mostro-fenomeno da baraccone.
Ma ben presto Lynch rivela agli spettatori gli intenti velati da umanità del Dr.Treves, ma non per questo meno crudeli del precedente proprietario dell'uomo elefante.
Cosa si nasconde dietro l'interessamento di Treves se non la volontà di approfondire i suoi studi di medicina su un caso rarissimo al mondo e di guadagnarsi un nome tra i luminari più famosi della scienza?
Almeno questi, apparentemente, sembrano gli intenti del Dr.Treves, ma pian piano maturerà in lui una consapevolezza ben diversa e imparerà a "vedere" l'umanità e la profonda nobiltà d'animo celata dietro le spoglie di un essere tanto mostruoso. Se l'uomo elefante sembra essere l'unico beneficiario della vicenda, ben presto ci accorgeremo di quanto non sarà soltanto lui a riconquistare la propria umanità, ma saranno soprattutto le persone intorno a lui, intente a prendersi cura di lui, a scoprire il vero significato della parola "umanità". L'uomo elefante conosce l'amore attraverso il dolore e la sua esperienza risulterà essere il profondo percorso di formazione di tutti coloro che vestono i panni della "normalità" ma che conservano una natura mostruosa all'interno del loro animo.
Il male non è quello che ha deturpato il corpo di John Merrick, sembra dirci Lynch, ma quello che si nasconde nell'animo di coloro che non riescono ad accettare il "diverso".
Durante il soggiorno nella clinica londinese l'uomo elefante lotterà per riconquistare la propria dignità e per gridare al mondo intero la sua natura di essere umano.
La conquista della propria umanità procede per gradi, in una delle scene più intense e poetiche del film lo vediamo recitare con passione e commozione i brani più celebri della famosa tragedia, Romeo & Juliet, di William Shakespeare, di fronte ad un'attonita attrice di teatro (Anne Bancroft), attratta dalla notorietà dell'uomo elefante e desiderosa di scoprire l'uomo che si nasconde dietro i tratti del mostro; " Tu non sei l'uomo elefante", dice lei, "tu sei Romeo".
In questa frase è implicito il messaggio di Lynch, bisogna riuscire a squarciare il velo dell'apparenza per cogliere l'essenza, ciò che è ma che non si vede.
Concetto rappresentato simbolicamente anche dal modello della cattedrale che l'uomo elefante sta costruendo all'interno della propria stanza nella clinica; dice Merrick: "dalla mia finestra posso solo intravedere la punta della cattedrale che sto prendendo come esempio per il mio modellino, il resto lo devo immaginare". Questa frase simboleggia il ruolo dell'immaginazione che non deve fermarsi alle apparenze ma che deve riuscire ad andare oltre, a superare il concetto di "ciò che soltanto si vede".
L'impresa di Merrick è quella di portare a termine il progetto della sua cattedrale in miniatura, progetto che metaforicamente rimanda al sogno della costruzione della propria esistenza all'interno della società, nella piena accettazione della sua persona riconosciuta come essere umano e non più come animale o mostro.
La vicenda dell'uomo elefante sotto la protezione del Dr.Treves subisce tuttavia nuovi colpi di scena, verrà nuovamente catturato dal precedente possessore e ricondotto in gabbia come attrazione nelle fiere.
Nuovamente brutalizzato rischia di morire, ma proprio nel momento in cui sembra non esserci più speranza di salvezza viene aiutato a fuggire e riesce a prendere il treno per tornare a Londra dal Dr.Treves.
A questo punto c'è la scena più bella, ed anche la più straziante del film: Merrick ha preso finalmente coscienza della propria umanità, e urla alla folla che lo aveva assalito alla stazione, la propria dignità ed il proprio dolore di non essere riconosciuto come uomo: "IO SONO JOHN MERRICK... IO SONO UN UOMO... IO SONO UN UOMO... NON UN ANIMALE!!"
Finalmente al sicuro nuovamente nella clinica, la società è pronta ad accoglierlo nelle sue braccia, ed i suoi amici gli regalano il sogno di una serata a teatro, dove viene salutato con un'ovazione spettacolare da tutto il pubblico.
La consapevolezza del significato "umanità" scorre quindi su un duplice binario: da una parte abbiamo Merrick che si riappropria della propria umanità, dall'altra abbiamo il Dr. Treves e l'entourage delle persone che si son prese cura di Merrick, finalmente pronte a "vedere" l'uomo elefante nella sua essenza e non più ferme all'apparenza di quel corpo mostruoso considerato solo come oggetto di studio o come fenomeno da baraccone.
"Sono felice ogni ora di ogni giorno della mia vita, perché mi sento amato": questo dice John Merrick, finalmente circondato dall'affetto dei suoi amici e finalmente possessore di un appartamento tutto per lui, finalmente nella realizzazione del sogno di avere una vita come tutti gli altri, nel pieno rispetto e nella riconquistata dignità.
Le vicende del, ormai ex-uomo elefante, John Merrick, sembrano concludersi qui, ma il finale drammatico, anziché attestare la sua vittoria, sembra voler riconfermare la prigione di quel corpo che lo rende inevitabilmente diverso.
Lynch non nega la diversità, ma mette a fuoco, grazie alla suggestione e genialità delle sue immagini, l'incapacità di accettare la diversità, questo unico, vero male della società.
Il male non è il diverso, il male è la nostra incapacità di riuscire ad andare oltre, di squarciare il velo per giungere infine all'essenza.
L'animo nobile e colmo di amore dell'uomo elefante diventa il simbolo di quell'essenza imprigionata nella deformazione del corpo, contrapposta alla malvagità degli esseri umani celata dietro un'apparente normalità.
E per concludere vorrei dedicare a tutti i lettori i famosi versi del poemetto composto da John Merrick, quando era in vita.
"Tis true my form is something odd.
But blaming me is blaming God;
Could I create myself anew,
I would not fail in pleasing you.
If I could reach from pole to pole,
Or grasp the ocean with a span,
I would be measured by the soul,
The mind's the standard of the man."