La maturità di un autore
Tratto dal romanzo omonimo di Daniel Wallace, Big Fish è il film che consacra Tim Burton non solo come un grande visionario, ma come un grande autore ed un grande cineasta nel senso più assoluto.
Dopo il quasi flop artistico di Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, il regista di Burbank ritorna infatti alla grande con un film che riesce ad essere allo stesso tempo onirico, magico e spettacolare ma anche intimo, delicato, commovente; un film complesso, strutturato e dai molteplici livelli di lettura.
La trama è lo strumento attraverso il quale Burton non solo affabula e commuove lo spettatore come ha sempre fatto con il suo cinema, ma dà vita ad un vero e proprio manifesto cinematografico ed esistenziale, come proveremo a raccontare in queste righe.
La storia di Big Fish è quella di un uomo, Edward Bloom, che giunto al termine di una vita lunga e ricca di avvenimenti, deve confrontarsi con il figlio Will; un figlio che non gli ha mai perdonato il fatto di aver passato la vita a raccontare storie fantastiche ed incredibili, tanto incredibili da essere razionalmente e ragionevolmente false, e di non essere stato in grado di mostrarsi a lui e a tutti gli altri per quello che era veramente, spogliato dagli abbellimenti e dalle iperboli delle sue fantasie. Storie e fantasie mirabolanti e oniriche che riviviamo attraverso i racconti di Edward e i ricordi di Will, storie che intervallano/sono intervallate dai momenti più spogli, geometrici, eppure straripanti di emozione del confronto a tratti rabbioso a tratti tenero tra un uomo e la sua prosecuzione nel mondo, il figlio.
Ad un primo livello di lettura, quello più legato all'intreccio - più superficiale se si vuole - Burton stupisce e commuove grazie ad un film che cattura e lascia lo spettatore a bocca aperta, non solo e non tanto per la visionarietà e la fascinazione insite nella visualizzazione dei racconti di Edward Bloom, ma anche e soprattutto attraverso il rigore estetico e la potenza emotiva delle scene della vita reale, di confronto tra l'Edward vecchio e malato e la sua famiglia.
Con questo film ed in quelle scene Burton dimostra di essere un grande regista scegliendo la strada più difficile per un autore abituato al barocco e alla ricchezza visiva: lavorando in sottrazione, girando in maniera sobria e quasi geometrica, in ambienti semplici ai limiti dello spoglio, affidando i sentimenti dei protagonisti non ai grandi gesti o ai grandi discorsi, ma ai dettagli, alle piccole cose: agli sguardi, alle carezze, all'accennato e magari non esplicitato e non concluso.
Il risultato ottenuto è quello commovente e magnifico che muove lo spettatore al sorriso e alle lacrime allo stesso tempo, conquistandolo in maniera lenta ma inesorabile: infatti, nel film si capisce da subito che Burton si immedesima in Edward e che vuole che il pubblico si immedesimi in Will; e per questo motivo all'inizio del film ci si chiede chi sia questo strano personaggio che imbarazza Will (ci imbarazza) che racconta storie suggestive sì, ma che sono palesi fantasie anche un po' senili, si è quasi restii ad abbandonarsi del tutto alla fantasia. Ma così come lentamente e inesorabilmente Will apre gli occhi su quello che è il mondo del padre e ne rimane avvinto e affascinato, arrivando ad accettarne quelli che riteneva i difetti e a comprendere che la soglia tra la realtà e l'immaginazione è uno spazio liminale di ampiezza indefinita e indefinibile, ampliabile a dismisura a seconda della propria soggettività, anche noi spettatori capiamo questo messaggio, accettiamo senza riserva alcuna, con stupore infantile e ragionato allo stesso tempo, quanto raccontatoci da Edward/Tim e siamo in grado si traslarlo dal buio della sala al nostro quotidiano.
Già quanto raccontato basterebbe a comunicare il potere seduttivo e la bellezza del film. Ma, dietro alla bellissima e commovente storia del rapporto tra un figlio che impara ad accettare e comprendere il proprio padre, Burton ha nascosto molto di più: riconoscendosi ed identificandosi nel personaggio di Edward, il regista ha dato vita ad una storia che è una grande e bellissima metafora della narrazione e della narrazione cinematografica in particolare. La "colpa" di Edward è quella di raccontare storie, di abbellire con dettagli avvincenti e fantastici le esperienze della sua vita; e queste storie, raccontate a voce, si trasformano nel film in immagini, in cinema.
Che Burton abbia voluto esprimere attraverso questo personaggio la magia e le dinamiche della narrazione filmica è testimoniato - a nostro giudizio - da due scene splendide, una in apertura ed una in chiusura di Big Fish.
La prima ha luogo sull'aereo che porta Will da Parigi agli Stati Uniti, dal padre: lì il ragazzo ricorda le serate passare ad ascoltare le storie del padre quando vede un bambino giocare con le ombre cinesi, espediente adottato dallo stesso Edward per "arricchire" i suoi racconti: i giochi di ombre sono tra le prime forme di narrazione per immagini, in cantonese "cinema" si dice dianyng, che significa "ombre elettriche" La seconda, quella verso la fine del film, è quella del funerale di Edward, nel quale si mescolano finalmente i personaggi protagonisti delle fantastiche storie di Bloom e quelli della vita cosiddetta reale, con il risultato di sembrare una situazione presa di peso da quella di un set cinematografico in pausa, quando attori in costume e troupe si mescolano in un sincretismo dalle risultanti surreali.
Il messaggio di Burton è chiaro: la realtà è fantasia, il cinema è fantasia, il cinema è realtà. Realtà e fantasia, reale e virtuale, sono espresse non come categorie ontologiche separate e distinte, ma come livelli sovrapponibili e intercambiabili; i film sono lo strumento attraverso il quale questa sovrapposizione può e deve essere esplicitata. E Big Fish è allo stesso tempo espressione e dimostrazione di questo teorema.