Horror psicologico dalle tematiche ambientaliste, La figlia del bosco appena approdato su Prime Video è l'opera prima di Mattia Riccio ed è basato sull'eterno conflitto tra uomo e natura. Da che parta sta il regista in questo duello è ovvio e il suo messaggio è sicuramente ammirevole, anche se la messa in scena del film prodotto da Vinians Production e distribuito da Minerva Pictures, soffre di parecchie ingenuità.

Del resto non era facile cimentarsi con il filone dell'eco-vengeance utilizzando il genere horror, giocare con le metafore del bosco simbolo della natura che si vendica contro chi la abusa, riflettere sulla presunzione ma anche sulla vulnerabilità umana di fronte alla potenza del creato capace di trasformarsi in entità ostile. Serviva probabilmente maggior esperienza, una scrittura un attimo più complessa e interpretazioni più naturali e meno cariche.
Quel bosco senza via d'uscita

La storia de La figlia del bosco è davvero molto semplice. Bruno è un cacciatore che finisce per perdersi nel bosco dove stava dando sfogo alla sua passione. Non riesce a trovare la strada del ritorno e quando si fa sera viene attratto da un canto femminile che lo attira verso una casa isolata e in apparenza abbandonata, ma dove c'è una tavola apparecchiata, oltre a delle inquietanti bambole di pezza. Una volta appurato che non c'è nessuno, l'uomo finirà per consumare la cena e dormire nella casa. Il giorno dopo si imbatterà in una boy-scout, anch'essa persasi nel bosco, e non sarà nemmeno l'ultima che incontrerà. Tutti alle prese con strani sensi di disorientamento e l'incapacità di ritrovare la via d'uscita, mentre nel bosco sembra annidarsi una misteriosa presenza.

Un chiaro messaggio ambientalista ma scene troppo ripetitive

Il messaggio del regista è lodevole e lampante: una netta e aperta condanna dell'uomo per i suoi comportamenti contro la natura, considerato che la secolare opera di profanazione è sotto gli occhi di tutti, anche se non tutti sembrano rendersene conto e da molti non affiora nessuna ombra di pentimento. Conseguente alla scelta del genere horror per questa mission, il tentativo di creare un'atmosfera inquietante, come l'intento di ritrarre una natura dominante e maestosa con ampie inquadrature che fanno da contraltare ai primi piani del disorientato e malcapitato protagonista.

Ma questo lodevole e comprensibile tentativo si risolve in un abuso davvero eccessivo di riprese con il drone per infinite e sempre uguali inquadrature dall'alto, che sembrano in realtà un po' una scorciatoia per arrivare almeno ai canonici ottanta minuti di durata. Più riuscito sembra invece il lavoro sul colore per cercare di dare i toni della fiaba nera alle immagini.
Buon utilizzo della musica, ma messa in scena povera e poco ritmo
Oltre a un incipit tutto sommato stuzzicante, c'è un'altra nota positiva ed è l'utilizzo della colonna sonora, che assieme al sound ambientale viene sfoderata nei momenti giusti con un mix tra violini, percussioni e cori che riescono a produrre un'atmosfera minacciosa. Però le note liete finiscono qui, perché la confezione presenta parecchie ingenuità, e non tutte figlie di un budget risicato da produzione indipendente.

C'è una messa in scena davvero povera e scarna, nonché una mancanza del senso del ritmo: essere lenti e riflessivi non è proibito, anzi talvolta è la chiave giusta per andare al cuore del racconto, ma non quando non succede praticamente nulla e ci si lascia andare a una serie di lunghe inquadrature della natura alternata agli sguardi quasi catatonici dei protagonisti. Perché in effetti un altro aspetto che lascia perplessi è quello delle recitazioni del cast, caratterizzate da espressioni monotematiche, forzate e poco naturali.
Le ingenuità del debutto e tante soluzioni poco convincenti
Siamo sicuramente d'accordo sul perdonare gli errori del primo lavoro di una troupe giovane e appassionata, che ha realizzato il film con un paio di settimane di riprese tra il Terminillo e il Monte Livata dimostrando un sano spirito indipendente, ma alcune cose andrebbero evitate. Come l'insopportabile soluzione del protagonista che parla da solo per spiegare allo spettatore cosa sta facendo.

E poi vari passaggi narrativi discutibili, come quello del suo comportamento davanti a una casa aperta e vuota, per non parlare dell'entità, o meglio della divinità che impersona la natura e che per questo viene presentata con un look davvero minimal, ovvero due cespuglietti di erba sui piedi e sulle mani e alla fine qualche rametto in testa. Tra l'altro di horror c'è poco o nulla, solamente alcuni incubi del protagonista, che fra l'altro alterna in modo maldestro momenti in cui è totalmente stravolto ad altri in cui improvvisamente appare ricomposto. Insomma tante cose poco convincenti, ma teniamoci l'urgente invito a una maggiore consapevolezza ambientale.
Conclusioni
L’opera prima di Mattia Riccio rivela tutte le difficoltà di un debutto che fatica a tenere in piedi un horror psicologico votato a un forte messaggio ambientalista. Buono l’utilizzo della musica e positivi gli intenti, ma la confezione risulta povera e senza ritmo, con una scrittura molto banale zeppa di scene ripetitive, non aiutata nemmeno dalla qualità delle interpretazioni.
Perché ci piace
- Il messaggio ambientalista e la condanna dell’uomo per i suoi comportamenti contro la natura.
- Il coraggio di abbinare horror ed eco-vengeance.
- L’utilizzo della musica e un discreto lavoro sul colore.
Cosa non va
- La messa in scena è debole e scarna.
- Lo script risulta povero con troppi momenti morti e scene ripetitive.
- L’abuso delle scene con i droni per inquadrare il bosco dall’alto.
- Il ritmo lento è appesantito da interpretazioni non all’altezza.