L'orrore corre sul web?
Il progresso inarrestabile della nostra società ha certamente i suoi aspetti negativi. Oggi il crimine esce dalla dimensione privata, dalla miseria degli oscuri anfratti, per offrirsi al mondo, proccupantamente vanesio. L'orrore è diventato un'esibizione che pretende un pubblico, il più vasto possibile. Nell'era di internet non c'è luogo più adatto del web perché l'offesa al corpo umano (in primis) si consumi sotto l'occhio affamato dello spettatore, raggiunto direttamente a casa propria da uno show comodo dall'inquietante appeal. In tanti si affannano a evidenziare i presunti pericoli della rete, potenziale fabbrica di carne da macello che aspetta solo l'adescatore di turno, ma anche strumento selvaggio di trasmissione delle proprie carneficine (dalle violenze filmate col mezzo di circostanza e archiviate su Youtube e affini all'esibizione sfacciata del piacere via cam). Naturale quindi che il cinema s'avvicini a questo mondo con curiosità e provi a raccontarlo, talvolta cercando di coglierne le sfumature, senza fermarsi alla sua demonizzazione abituale, molto più spesso cedendo al richiamo dell'esagerazione, per mettere in scena atrocità e perversioni che provochino il coinvolgimento del pubblico-voyeur che gode nel sopportare la violenza perpetrata verso gli altri.
Nella rete del serial killer c'informa che esiste, all'interno dell'FBI, un'unità che si occupa di cyber-crimini, una divisione, cioè, incaricata di investigare e perseguire i criminali su internet. Per testarne capacità e strumenti gli offre un giovane psicopatico in grado di aprire un sito che non può far risalire al suo creatore e non è possibile oscurare (né a quanto pare arginare) in cui mostrare i propri omicidi, immobilizzando le vittime e consegnandole a una lenta agonia che promette di diventare sempre più breve all'aumentare degli accessi alla pagina oscena. Inevitabile che, grazie al passaparola, ma anche alla pubblicità che ne fanno i telegiornali nei tanti servizi, il sito faccia segnare rapidamente milioni di contatti, limitati qui ai soli americani, a quanto pare popolo di assassini per procura che gode nell'assistere alle torture altrui. D'altronde, come afferma qualcuno nel film, la follia dell'uomo ha portato sui media di tutto il mondo le decapitazioni da parte dei terroristi in tempo reale e siamo perciò abituati ad essere raggiunti quotidianamente da questo bombardamento incontrollabile di immagini violente che si ciba della nostra stessa partecipazione, dello sdegno, del sollievo che tali barbarie capitino sempre agli altri.
Gregory Hoblit gira un thriller che non ha il coraggio di essere horror e prova goffamente a scavare in profondità nell'animo del gatto e nelle motivazioni che muovono il topo, vale a dire nell'intimità del detective/madre single Diane Lane e nelle cause che portano un giovane nerd a martoriare gente innocente non rinunciando alla relativa spettacolarizzazione. Sullo schermo appaiono finestre di enorme sofferenza che le autorità non sono in grado di chiudere o quanto meno di accostare, limitando l'accesso allo show delle efferatezze e prolungando almeno così il travaglio del malcapitato sulla graticola. A scrivere il soggetto due uomini della casa di produzione Lakeshore Entertainment alla prima esperienza con la scrittura, che per trasformare le loro idee in una sceneggiatura compiuta si sono affidati ad Allison Burnett, uno che ha firmato gli script di Autumn in New York e dell'imminente remake di Saranno Famosi. La formula non funziona, la tensione è mal gestita e resta sempre a un livello medio-basso che naufraga di tanto in tanto nella monotonia, nonostante ci si tolga lo sfizio di far crepare uno tra i protagonisti. Il voyeurismo macabro portato sullo schermo fa da lezioncina: internet è una giungla incontrollabile, le gesta infami dell'assassino tornano buone come monito alle autorità che permettono ogni giorno il passaggio di immagini agghiaccianti, che ci raggiungono diventando parte di noi, che cresciamo ormai avvezzi alle peggiori mostruosità, anche se alla fine, comunque, il bene è destinato a vincere sempre sul male. Basta crederci. L'impostazione seriosa del film ci nega dunque il tipico intrattenimento del prodotto estivo più becero, ma le immagini scivolano via senza far troppi danni. Per fortuna a evitarci il colpo di sonno c'è Diane Lane, come al solito brava e mai eccessiva, tanto che sembra sappia davvero di cosa parli quando si lancia in lunghe spiegazioni in un linguaggio tecnico da esperto telematico che rischia di mandare in tilt la disponibilità alla comprensione dello spettatore all'asciutto di internet.