L'imprigionata libertà di coppia
Roma, anni '70. Carlo e Silvia, sposati, colti, benestanti, di mezza età, vivono all'insegna di quel modello sperimentale di coppia aperta tanto in voga in quegli anni di proclamata libertà sessuale. Un insieme di accordi e tacite leggi regolano e scandiscono la loro unione: nessun diritto all'esclusività del partner, controllo della gelosia, apertura a relazioni extra coniugali. Silvia accetta di buon grado la relazione di Carlo con una ragazza più giovane, Lù, dinamica e vitale, riempiendo a sua volta, con piccole avventure di poco conto, quell'inevitabile solitudine che riecheggia nelle grandi stanze di una splendida villa lasciata vuota dal marito durante la sua permanenza con Lù.
Una sera Silvia confessa a Carlo di aver iniziato una "strana ed assurda" storia con un "ragazzetto" molto giovane, forte e muscoloso, dedito al culto del corpo e della forza fisica, violento ed arrogante, problematico ed incline ad improvvisi sbalzi d'umore apparentemente inspiegabili. Carlo percepisce immediatamente, dagli sguardi, dal tono di voce e dalle movenze di Silvia, che questo ragazzo non è un'avventura come le altre, proprio in virtù di uno strano e forte potere quanto questo potere stia diventando in realtà una sorta di plagio cui Silvia non vuole e non può resistere.
Da notare come, a differenza del personaggio di Lù cui Mario Martone dona ampio spazio e respiro, il "ragazzetto" di Silvia non solo non è mai nominato, quindi mai definito nella propria identità, ma non appare mai, neanche per un secondo, sullo schermo. La sua presenza è data dalle sole descrizioni e dai resoconti forniti da Silvia. Ciò che conta, sembra voler dire il regista, non è tanto l'esistenza come individuo di questo ragazzo a determinare il forte cambiamento emotivo di Silvia quanto la natura della relazione in sé, come se fosse il mezzo attraverso il quale Silvia prende atto di quelle pulsioni latenti, oscure ed autodistruttive, di cui fino a quel momento non sembrava per niente consapevole.
Silvia viene trascinata così sull'orlo di un baratro di cui avverte forte l'intensità di un richiamo al quale non può sottrarsi. Smarrita, turbata, improvvisamente cosciente della sua natura propensa ad una sottomissione sessuale e psicologica inaspettatamente rivelatale dalla relazione con il giovane, sembra voler implicitamente chiedere aiuto al marito Carlo attraverso delle reticenti confessioni. La figura del marito resta, a questo punto della vicenda, tratteggiata in modo ambiguo; dopo un tentativo di riavvicinamento a Silvia decide di andarsene abbandonandola al proprio destino. Se ne va per vigliaccheria ed egoismo, incapace di accettare il pieno trasporto emotivo della moglie oppure per un estremo, autentico quanto paradossale atto d'amore, lasciandola libera nel pieno rispetto di quella proclamata libertà di coppia che deve liberare anziché "imprigionare"?
Certamente Carlo, pur nell'ambiguità del suo comportamento, mantiene come caratteristica dominante quella di un forte intuito, di un istinto quasi animale che, come profeticamente annuncia il titolo, gli porta alle narici L'odore del sangue e di quel drammatico epilogo oltre il quale non resterà che un vago senso di colpa ad aleggiare come ultima presenza sulla quale lo schermo andrà ad oscurarsi per lasciar apparire i titoli di coda. Quest'ultima scena, fredda, agghiacciante, eppure composta e priva di pathos, sembra voler sancire in chiusura quello stile asciutto ed essenziale cui Martone ha affidato l'intero film, uno stile distante e distaccato in cui gli interpreti, Fanny Ardant e Michele Placido, mantengono sempre un forte controllo emozionale senza mai lasciar trasparire l'oggettività della tragedia in corso. Se questo stile ha il difetto di coinvolgere poco lo spettatore, rendendolo scarsamente partecipe alla vicenda, ha però il pregio di raccontare con garbo ed autenticità una storia a tinte forti in cui sarebbe stato facile scivolare nel feuilleton.