L'amore che ritorna
Girare un film a budget e tempo ridottissimi: questa l'impresa in cui è riuscito Vladan Nikolic con il suo Love, che ha inaugurato le Giornate degli autori nel corso della 62esima Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Il regista, originario di Belgrado ma da una decina d'anni newyorkese, ha realizzato in soli ventuno giorni il suo secondo lungometraggio, di cui è contemporaneamente sceneggiatore e responsabile di montaggio, dopo quel Burn che vinse il Telluride Film Festival nel 2001, riportando ancora una volta sul grande schermo la tematica dell'immigrazione.
Il protagonista è un (ben poco) checoviano Zio Vanja (un convincente Sergej Trifunovic), nome in codice per identificare quell'uomo invisibile che, trasferitosi dalla Iugoslavia a New York in seguito della guerra, si è ritrovato immerso in affari loschi che per forza di cose lo hanno portato a diventare un vero killer professionista. Dopo anni di vita burrascosa trascorsa nell'anonimato di un paese straniero, per giunta ormai priva di legami seri (incisiva la scena del dialogo isterico con la presunta attuale ragazza: "Mi ami? Rispondimi, mi ami?" "...Mi piaci."), Zio Vanja è alle prese con la sua ultima missione, almeno secondo gli accordi presi con il suo boss, un ex-agente segreto di facile corruzione. Ma tutto si complicherà, prenderà pieghe inaspettate che porteranno quel ragazzo bosniaco - il cui unico sbaglio sottolineato più volte dalla voce fuori campo era quello di "credere ancora in un paese chiamato Iugoslavia"- a rapire e quindi fatalmente rincontrare la donna della sua vita, che per una cinica ironia del destino si rivela essere anche la donna del poliziotto e allora la pellicola si svolgerà su due binari paralleli: quello della caccia all'assassino e quello, ben più traballante quanto vibrante di disperazione, della lotta-duello fra killer e poliziotto per la stessa, sfuggente, amata.
Violenza, squallore e disperazione sono i tratti caratteristici di tutti i personaggi di questo thriller dalle tinte noir firmato Nikolic, ovvero tutti volti non troppo noti e scelti ad arte proprio per interpretare al meglio la peculiare condizione di solitudine in cui ognuno di loro si trova a vivere: la dottoressa serbo-tedesca (interpretata dall'algida Geno Lechner) che si getta a capofitto sul lavoro "senza frontiere" per dimenticare un amore ossessivo senza mai riuscirci davvero; il gangster napoletano da quattro soldi che piange sul letto d'ospedale dell'adorata moglie gravemente malata, cantandogli con uno straziante flebile sussurro: "Tu sì 'na cosa grande pe' me..."; la giovanissima barista francese, innamorata e non ricambiata, e persino tradita con il presunto "ostaggio"; il grande amico, distributore d'improbabili lezioni sull'amore di giorno e presentatore in un locale gay di sera ("E adesso scusami, torno ad essere donna"); trafficanti ispanici e donnette dei vari boss avide di guadagni e, last but not least, il poliziotto che s'improvvisa scrittore per raccontare tutta questa brutta, squallida, torbida storia dove la Grande Mela si rivela nient'altro che un sudicio contenitore di vermi ed esseri insignificanti in balia d'un destino ben più potente di loro.
L'escamotage dello scrittore-personaggio che racconta la storia da lui stesso vissuta in prima persona fa molto Confessioni di una mente pericolosa, benché in Love risulti decisamente meno efficace. Al contrario, il titolo è di una precisione graffiante: l'amore è il filo rosso che percorre la pellicola, rosso come il colore del sangue, della violenza, dell'ossessione morbosa. E di fatti il film inizia e finisce nello stesso modo, in una struttura ad anello incentrata proprio sull'intreccio di fili fra le mani d'una donna, a simboleggiare quell'intreccio di storie, quel complicato groviglio di vite umane che, loro malgrado, si ritrovano a dover interagire nel caos della quotidianità. Un caos fatto di sentimenti deformi e deformanti che Nikolic riesce a tradurre nel linguaggio cinematografico in modo sufficientemente dignitoso, sempre se considerati tempi e costi di realizzazione, roteando la macchina da presa a seconda dei punti di vista e giocando fra flashback e scene parallele in uno stile che evoca (benché molto da lontano) il grande Tarantino.