Più dei suoi Golden Globes, più del suo Carmy, più del fisico scolpito sfoggiato nella campagna pubblicitaria di Calvin Klein. C'è qualcosa che rende Jeremy Allen White diverso dagli altri attori. Probabilmente, migliore degli altri. Almeno in questo istante, mentre rintracciamo il profilo professionale e umano di un interprete di cui siamo spassionatamente innamorati. Uno che fa la differenza, sempre. Uno che con quegli occhi, accesi e vispi, potrebbe avere tutti i ruoli che vuole. Tuttavia, se di differenza parliamo, la carriera di un attore non si basa tanto sui sì, ma sui no. Questione di scelte, questione di equilibrio. Come al cinema, come nella vita, come in cucina. Quella cucina - la cucina del Beef - che in un paio d'anni ha reso Jeremy Allen White il centro assoluto della serialità, decostruendo l'emotività maschile (e l'ambizione maschile) in quel tripudio che è The Bear.
Due stagioni (una meglio dell'altra), due Golden Globes portati a casa (2023 e 2024, altroché i palloni d'oro di Messi). Doverosa, allora, la nostra onesta sviolinata in una 'copertina' che vuole esaltarne le scelte, in relazione alla (in)consapevolezza di essere il migliore di tutti. Come? Mettendoci passione. Ce la mette, sempre. Che sia per una serie capolavoro, o che sia per un piccolo e meraviglioso ruolo in un film indie in bianco e nero (Fremont di Babak Jalali, qui la recensione). O che sia per un rifiuto, perché i dubbi sono l'essenza dell'uomo. Un esempio? Durante un provino per una "specie di film della Marvel" si è chiesto perché avrebbe dovuto interpretare il ruolo, ragionando sui motivi per cui certi ruoli sono considerati "l'apice di una carriera". E noi, di riflesso, veniamo travolti dal suo spirito, dalla sua presenza scenica, dai suoi colpi esplosivi. Appunto, veniamo travolti dalla sua passione, come se fossimo un pugile livido stordito, ormai alle corde. In fondo, cos'è il cinema, se non uno scambio diretto con i nostri sogni e le nostre aspirazioni?
Jeremy Allen White, la misura della grandezza
A proposito: se la grandezza di un attore si misura dalle proprie scelte, quelle di Jeremy Allen White hanno fatto il doppio giro, finendo nell'esaltazione più pura. E a proposito di ring e di lotta, il 2024 si apre appunto con un Golden Globe (condiviso insieme alla protagonista femminile di The Bear, Ayo Edebiri) e con il ruolo, già cult, di Kerry Von Erich in The Warrior - The Iron Claw di Sean Durkin (dal 1 febbraio al cinema), dove si racconta la storia vera dei Von Erich, una delle più importanti famiglie di wrestler degli Anni Settanta e Ottanta.
Quattro fratelli (nel cast anche Zac Efron), un padre padrone e l'ossessione, tutta americana, per il trionfo, per l'ostentazione, per la cultura fisica. Campagna di marketing strabiliante (dietro c'è la firma di A24), e una preparazione atletica non indifferente: "Mio padre ha vinto dei campionati alle superiori", spiegava Allen White a Variety, "Ed è stata una parte importante della sua vita. In qualche modo, è diventata una parte importante anche per me. Ci siamo allenati molto, per fortuna avevamo un coach come Chavo Guerrero, wrestler professionista".
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Il ballo, i Golden Globes e quel cappello dei NY Mets
Strano incrocio quello di Allen White con il cinema. Lui, nato ballerino, si è avvicinato alla recitazione a tredici anni, seguendo la stessa intuizione dei suoi genitori (entrambi attori), frequentando così la Professional Performing Arts School di Hell's Kitchen. La stessa frequentata da Claire Danes, Jesse Eisenberg, Alicia Keys. Talento, faccia giusta, un fisico da far invidia (colto da Calvin Klein Underwear, che lo ha voluto per una notevole campagna pubblicitaria che ha fatto girare la testa a mezzo mondo), e quell'indole tanto maschia quanto emotiva, mostrando sé stesso, senza sovrastrutture. Come quando sul set, per scaricare l'ansia, si mette a ballare il tip tap senza accorgersene. O come quando lavora per intensità, plasmando i propri personaggi con la più credibile delle consapevolezze, senza rinunciare alle storture o alla fallibilità, pensando ad Al Pacino in Panico a Needle Park per "L'inquietudine di Carmy".
Eppure, fa strano parlare oggi di "rising star", quando la bravura di Jeremy era già palese in The Speed of Life di Edward Radtke, presentato a Venzia nel 2007. La storia? Quella di un sedicenne, Sammer, che ruba le videocamere dei turisti in giro per Manhattan insieme ad un gruppo di amici. La sera, però, recupera le registrazioni, sognando una vita diversa, lontana da Brooklyn. La stessa Brooklyn dove è cresciuto Jeremy Allen White. Ma se New York è la città dei registi, Hollywood è il teatro degli attori. A diciotto anni si trasferisce a Los Angeles, dove vive tutt'ora (ma non si separa mai dal suo berretto dei New York Mets, regalato dalla sua ex moglie, Addison Timlin, da cui ha avuto due figlie), arrivando al primo ruolo importante, ovvero Lip Gallagher nella serie Shameless.
Dieci anni, 134 episodi e una sorta di liberazione finale: "Amo Shameless, amo chi ha lavorato con noi. Ma non credo che le serie debbano durare così tanto", raccontava l'attore, dopo la conclusione. Ciononostante, "Cosa ci sarà dopo? Sono ancora un attore?", si chiedeva. Ed ecco che, stravolgendo il paradigma, plasmando quella "solitudine romantica" che lo attanagliava (il linoleum piatto di Los Angeles è l'antitesi del calore di New York), è arrivata la rivoluzione di Carmy Berzatto, chef rabbioso e folgorante "incontrato al momento giusto", confidava a GQ. Un personaggio "insicuro delle sue capacità. Come ero insicuro io". Da lì, è bastata una t-shirt bianca per creare quello che potrebbe essere uno dei personaggi seriali più influenti e più sorprendenti, affacciandosi ad una terza stagione che, secondo lui "tornerà ad una cucina più funzionale, come visto nella prima stagione". Prima, però, lo spazio meritato sul palco dei Golden Globes, in total black (Calvin Klein, ovvio), dedicando il premio alle figlie, Ezer e Dolores: "Siete il mio cuore. Vi amo. Vi amo. Vi amo". Cuore di papà. Perché sì, nessuno è come Jeremy Allen White.