Solo un anno fa si gridava al Leone d'oro per un film italiano che aveva messo d'accordo tutti, conquistando una clamorosa ovazione alla fine della sua proiezione, e che ci aveva fatto concludere il festival con un enorme sorriso sulle labbra. Nuovomondo di Emanuele Crialese aveva fatto sognare perché era esso stesso un sogno, un viaggio onirico nell'oceano di novelle speranze, che si allontanava con eleganza da quanto visto negli ultimi anni da queste parti. Oggi a Venezia solo fischi per il nostro cinema. Com'è lontana quella nave che ci conduceva in lidi sconosciuti, in territori che sembravano decretare un nuovo inizio per quel cinema sgualcito, da troppo tempo boccheggiante, affondato dalla banalità e dalla noia di una scrittura senza qualità. Forse avevamo caricato di troppe aspettative i tre film italiani in concorso a quest'edizione della Mostra del cinema di Venezia, ma le nostre speranze erano confortate da un recente passato piuttosto brillante degli autori in questione. Non vorremmo ora commettere l'errore di dichiarare troppo in fretta la ripresa del declino del nostro cinema, ma il passaggio in concorso de L'ora di punta di Vincenzo Marra ci ha fatto sprofondare nuovamente in una forte disillusione dalla quale speriamo di risollevarci prontamente.
Cos'è successo allora?
E' successo che i nostri autori sono tornati a parlare del solito squallore dei mostriciattoli di un'Italietta sempre più piccola. Mediocrità, piattezza e fastidio per chi riprende a raccontare la miseria del nostro paese senza aggiungere nulla di nuovo a ciò che è stato già detto in precedenza. Il film di Marra è così misero perché ci inganna col suo tocco elegante e le sue pretese di autorialità per poi srotolarsi in una imperdonabile sequela di luoghi comuni, di insulsi raccontini, echeggianti stereotipi, sui piani alti del nostro paese sempre spregevoli, dimenticandosi del cinema, andando a naufragare in quel pericoloso territorio della peggiore fiction televisiva che è ormai divenuto metro di paragone inevitabile quando si toccano certi temi così abusati nel racconto catodico. Non riusciamo a salvare proprio nulla de L'ora di punta, sommerso dai fischi ed umiliato da continue risate nei suoi momenti topici durante la proiezione per la stampa. E le colpe spettano a tutti, compresi quegli attori che non ci sono: Fanny Ardant ha stampato sul viso, durante tutto il film, la stessa espressione affranta che non trova mai sollievo, Giulia Bevilacqua finge una disperazione e una delusione che non sente mai, e Michele Lastella, pur essendo il protagonista, semplicemente non esiste e quando prova a giocare con la mimica facciale risulta tristemente ridicolo. E perché un regista come Marra di fronte a così evidenti limiti del suo parco attori si intestardisce in imbarazzanti primi piani? Perché muove la camera solo per sottolineare il nulla che racconta? Che desolazione, che voglia di abbandonare la sala per non assistere ad un tale scempio. Indifendibile.
Pochi giorni fa avevamo assistito invece ad un altro tonfo, quello di Andrea Porporati con il suo Il dolce e l'amaro, ma a questo punto di un simile film senza pretese, su un mafioso redento dal viso buono, avremmo voglia soltanto di scovarne i pregi, dimenticandoci di quanto poco abbia aggiunto in realtà al filone dentro il quale si colloca, fermo ormai a trent'anni fa. Luigi Lo Cascio ha messo in un angolo l'aureola del suo Peppino Impastato e ha vestito i panni del giovanotto disinvolto col sogno del bandito che scopre quanto sia liberatorio, all'apice di una fulminea carriera criminale, dire no alla mafia e metter su famiglia con la donna amata da una vita, trasferendosi nel ricco Nord e abbandonando a sé stessa la Sicilia, dopo aver contribuito a renderla peggiore. Vorremmo sì pensare al buono, ma quanta superflua retorica c'è in questa storia? Chi aveva bisogno dell'ennesimo film civile sulla mafia con relativo messaggio educativo rivolto in primis a quelle generazioni più giovani considerate sempre meno intelligenti di quanto in realtà non siano? Per fortuna il film qualche risata (stavolta giustificata rispetto a quelle a crepapelle durante il film di Marra) la strappa e quella dentro il film, intonata nel finale da un buon Lo Cascio, libera il personaggio e gli spettatori da ulteriori ovvietà da sopportare.
Il tanto criticato Paolo Franchi risulta a conti fatti e di gran lunga il migliore degli italiani passati quest'anno a Venezia col suo spigoloso Nessuna qualità agli eroi, un film che ha l'enorme merito di lasciarci negli occhi una serie di immagini forti, trovando già in questo una propria ragione d'essere. Franchi è un autore estremamente presuntuoso (lo confermano le deliranti dichiarazioni in conferenza stampa, come quando ha zittito una giornalista che gli chiedeva il senso delle numerose scene di sesso con uno stupefacente "Io non giro mai nulla di gratuito") ma il suo cinema almeno non assomiglia per niente a quello sterile che domina oggi in Italia e che ci impone ogni volta uno spietato confronto con la fiction televisiva. I personaggi del film di Franchi sanno sopravvivere ad un film ombelicale, superando i limiti di una forte connotazione psicologica della vicenda, seppure vanno perdendosi nei troppi temi che il regista e i suoi sceneggiatori scelgono di mettere sul fuoco. La maturità registica di Franchi è evidente e gli azzardi non sempre riusciti possono solo far piacere: il talento c'è e si vede. Si sentono lingue diverse nel suo film, si esplorano luoghi ed atmosfere insolite, e se pure il gioco di linee parallele tracciato dalle vicende dei protagonisti lascia qualche legittimo dubbio sulla sincerità del racconto, il duello storico tra padri e figli trova qui un'indagine originale e personale che offre finalmente un punto di vista stimolante su un tema così significativo e già ampiamente saccheggiato. Ci piacerebbe quindi, nonostante tutto, ripartire proprio da Paolo Franchi per ritrovare la speranza di un buon cinema italiano, che qui a Venezia non abbiamo potuto apprezzare neppure nelle sezioni collaterali.