Come avremo modo di approfondire nella nostra recensione di #IoSonoQui, il nuovo film di Éric Lartigau, celebre per il suo precedente La famiglia Bélier, si pone in una strana via di mezzo a cavallo tra commedia francese e spot pubblicitario coreano. Attraverso una trama molto esile e personaggi che si dimostrano più maschere che vere e propri caratteri, #IoSonoQui è un film leggero, adatto a tutta la famiglia e ideale per passare un'ora e mezza spensierata, nonostante la presenza di alcune tematiche interessanti, in compagnia di un uomo di mezza età pronto a fare follie per amore e dare una scossa alla propria vita.
Viaggiare per ritrovare sé stessi
La trama del film si concentra sulla storia di Stéphan, un cuoco francese di mezza età, divorziato e che non sembra avere un buon rapporto con la propria famiglia. Escluso dalle vicende dei suoi figli, quasi dei perfetti sconosciuti per lui, si è sempre più rintanato nella tradizione del ristorante che gestisce e nell'utilizzo dei social network, in particolare di Instagram, dove pubblica continuamente foto della sua quercia preferita. Abbandonandosi sempre più nel mondo virtuale, Stéphan instaura un dialogo sempre più pressante con Soon, una ragazza coreana di cui s'innamorerà platonicamente. Quasi succube di una rivelazione personale, il protagonista abbandonerà la Francia per viaggiare sino nella Corea del Sud, a sorpresa, e incontrare Soon. Arrivato all'aeroporto di Seul, però, la ragazza non si trova. Non risponde più ai suoi messaggi, finiscono le interazioni. A Stéphan non rimane che restare in aeroporto, in attesa, giorno dopo giorno. È una trama molto semplice quella di #IoSonoQui, titolo che corrisponde all'hashtag usato da Stéphan nei social per comunicare a Soon di essere giunto a Seul, che procede con ritmo accumulando vari piccoli episodi di vita, di conoscenze e di incontri che il nostro protagonista vive all'interno delle mura dell'aeroporto. Sarà l'occasione per compiere una riflessione sulla propria vita e forse ritrovare quel legame famigliare che i social gli avevano tolto.
Scoperta e tradizione
Sono due gli elementi su cui il film si sofferma, a volte così tanto che rischia di venirne soffocato. Il primo lo potremmo riassumere come la scoperta, il secondo come la tradizione. Il viaggio di Stéphan acquista uno spessore interiore: il cambiamento non è solo nel Paese diverso o nel diventare turista, ma nel tentare di uscire da una routine che lo stava lentamente escludendo alla vita. Il viaggio in Corea è un viaggio di scoperta, di un mondo diverso ma anche di un sé stesso nuovo, anche se, a conti fatti, è solo un cambiamento apparente. Per gran parte del film (tutto il secondo atto) il regista indugia sulla vita in aeroporto di Stéphan confondendo la commedia in stile The Terminal e la voglia di scoprirsi (inteso anche come spogliarsi di tutto il peso che il personaggio portava con sé) con un lungo spot pubblicitario per il turismo in Corea. Si percepisce un'assenza di conflitto narrativo per prediligere sequenze a tratti anche fine a sé stesse (è il caso degli artisti che suonano e cantano). Rimanere imprigionato in un aeroporto comporta la creazione di una nuova bolla, di una rinascita apparente che avviene solo attraverso i social. A suo modo, non è un cambiamento. Il terzo atto sembra, quindi, condannare unicamente la bolla virtuale a favore della tradizione: la bellezza era esattamente dove stava al principio e la modernità acquista le dimensioni di una trappola che un protagonista boomer non sa usare.
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Reggere il film da solo
Nonostante una conclusione un po' troppo conservativa, il film riesce a risultare godibile grazie a un attore protagonista che regge sulle proprie spalle l'intero peso del film. Alain Chabat dà vita a un Stéphan credibile a cui è impossibile non voler bene, anche se la sceneggiatura sembra guidare in maniera sin troppo artificiosa decisioni e ripensamenti del personaggio. Il resto del cast, complice anche uno screen time veramente esiguo, non riesce a evidenziarsi allo stesso modo. In particolare, la presenza di Bae Doo-Na appare quasi superflua. Proprio in questo caso si percepisce una certa pigrizia nella scrittura che, al netto di alcuni momenti davvero riusciti, come il doppiaggio farlocco che avviene nella mente del protagonista mentre guarda un film in coreano, non incide a dovere. Si ha la sensazione che il film avesse molto da raccontare, anche e soprattutto attraverso una dimensione emotiva, ma che il tutto si sia sacrificato in favore di un prodotto più interessato a un lato pubblicitario che a quello umano. La dimostrazione è nella scelta di depersonalizzare i dialoghi e i momenti più calorosi con le schermate di Instagram in sovrimpressione. Questa freddezza che è a suo modo un giudizio sull'uso dei social catapulta il film in un mondo più chiuso di quanto non voglia raccontare.
Conclusioni
A conclusione della nostra recensione di #IoSonoQui sentiamo il bisogno di contestualizzare il voto sufficiente. Il film di Éric Lartigau, complice un attore protagonista che regge sulle proprie spalle il peso del film, è godibile e appaga lo spettatore. Peccato che una scrittura un po’ pigra affossi le tematiche importanti che la storia comporterebbe, prediligendo una dimensione da spot pubblicitario nei confronti del mondo coreano e un’iper-semplificazione delle dinamiche. A lasciare più sorpresi è il discorso sui social e sulla famiglia: da una storia che lasciava intravedere un’apertura si percepisce una condanna verso il mondo virtuale, ormai sempre più presente nella vita di ognuno di noi. Nonostante tutto, però, il film si conclude senza colpo ferire, un po’ scevro di emozioni, ma confermandosi nel complesso una piacevole visione.
Perché ci piace
- Il film risulta godibile e piacevole, per una visione senza troppe pretese.
- Alain Chabat dà corpo a un protagonista a cui non si può non voler bene.
- Al suo interno sono presenti alcune tematiche importanti e interessanti…
Cosa non va
- …che non vengono opportunamente sviluppate, rimanendo un po’ troppo in superficie e abbracciando un conservatorismo (specie sui social) inaspettato.
- Una lunga parte del film assomiglia a uno spot pubblicitario.