Clive Owen è veramente un british guy. Da una ventina d'anni oramai tra i massimi esponenti della categoria "maschio, bello e tenebroso", rispetto a molti suoi colleghi americani dalla faccia da schiaffi e dal fascino più smargiasso, il cinquantenne inglese di Coventry si differenzia ancora oggi per quel pudore e quella timidezza tipica dello charme inglese. Very shy, very polite, very british insomma. Anche quando la clip di Closer, una delle tante viste durante il nostro incontro, parte clamorosamente senza audio, se ne esce con un irresistibile e azzeccatissimo "unfortunately I don't remember the line...", ma lo pronuncia in un modo talmente castigato che sembra quasi di vederlo arrossire.
Una carriera che da Il colpo - Analisi di una rapina lo ha sempre visto in forte ascesa, con pochissimi passi falsi e scelte a volte controcorrente, che comunque lui mette serenamente in conto dicendo: "Quello che cerco è sempre la verità, essere convincente per il pubblico, poi può andare bene o male ma io sono soddisfatto". A Roma in questi giorni dove ha presentato la serie TV The Knick di Steven Soderbergh al Festival del Film, ha incontrato il pubblico raccontando di sé, delle sue origini di working class man, della sua carriera e del suo modo di rapportarsi al cinema.
Working class man
In realtà vorremmo cominciare parlando degli inizi della sua carriera. Quando si è reso conto di voler fare l'attore?
Clive Owen: Nel mio caso è un po' un cliché, niente di speciale. Sono cresciuto nell'ambiente abbastanza duro delle scuole popolari, ho fatto un provino per una recita scolastica a teatro dove abbiamo messo in scena Dickens, e lì ho deciso cosa volevo fare, semplicemente ho sentito che avrei fatto quello. Nella città c'era una filodrammatica, con un amico abbiamo recitato in un sacco di drammi e commedie, la fortuna è stata che chi lo gestiva, il nostro insegnante, dopo è andato a gestire la Royal Academy of Dramatic Art.
Quindi non veniva da un contesto che aveva a che fare col mondo del cinema? No, assolutamente. Vengo da una città di operai, una famiglia di operai: l'idea non veniva presa sul serio dal nessuno quando incominciai a parlarne, ma io ero deciso.
Nei suoi film in effetti lei gioca un po' sul fatto che i suoi personaggi si presentano sempre un po' in sordina, provenienti magari dalla working class, per poi sorprendere e scoprirsi molto più raffinati. L'unica cosa che posso dire è che non è detto che il fatto di venire dalla classe operaia voglia dire non avere un intelletto fine. Quando ho cominciato a recitare ovviamente ero un prodotto dell'ambiente da cui venivo: sono stato incredibilmente fortunato scegliere la Royal Academy, che mi ha plasmato e ha fatto di me l'attore che sono. Con un'altra scuola non avrei imparato così tanto.
Imprevedibilità e impassibilità
C'è sempre qualcosa di imprevedibile, di volubile nei suoi personaggi. Le capitano così o li cerca in questo modo dall'inizio? Sarò evidentemente attratto da questo tipo di soggetti. In Closer ho preso il ruolo che doveva essere di Jude Law, lo adoravo nella scrittura del testo già quando vedevo la pièce a teatro. Dopo qualche anno Mike Nichols mi ha cercato e mi ha offerto proprio quel ruolo. Per Gosford Park invece è piombato dal cielo: stavo lavorando a Il colpo - Analisi di una rapina, Robert Altman mi ha chiamato e mi ha detto 'non so ancora cosa ti farò fare, ma voglio solo che tu ci sia'. In generale mi piace la sfida di interpretare ruoli che possono sembrare difficili, non si tratta di accattivarsi il pubblico e le sue simpatie, puoi piacergli o meno il personaggio ma l'importante è fargli capire perché fa quello che fa.
Molti dicono che i grandi al cinema si riconoscono per lo stile di 'impassibilità'. Lei sa fare molto bene questa cosa, lavorare in sottrazione, fare sì che il cinema lavori per lei, restituire tanto con poco, con l'impassibilità di uno sguardo. Lei ha capito che questa cosa funzionava, si ricorda quando ne ha fatto un'arte e non è stata più casuale? Ho iniziato facendo teatro e la transizione al cinema mi ha fatto capire che tutto ciò che è teatrale sul grande schermo suona falso, non è credibile quando il ruolo diventa stratificato a causa di enfasi ed eccessività. Le migliori interpretazioni sono quelle basate sul togliere, quando emerge la verità. I grandi attori di teatro non sempre funzionano al cinema.
Lei è uno a cui piace rivedersi? No, non mi piace molto rivedermi, ma aiuta a capire che non puoi portarti dietro certe sovrastrutture. Io sono in effetti il mio peggior giudice, non riesco a guardarmi da una certa prospettiva e dalla giusta distanza.
Altman e gli altri
Prima ci ha parlato di come le interessa la drammaturgia. In questo senso ha lavorato con registi straordinari. Assolutamente. Su tutti vorrei citare Robert Altman, un genio. Al cinema noi ci offriamo completamente come attori, a teatro posso mettere enfasi, mettere un punto, fare una pausa: al cinema è il regista che controlla te. Due cose di Altman: non ho mai visto nessuno dirigere con questa fluidità, far dare il massimo ad ogni personaggio in ogni scena, nessun tipo di frustrazione per nessuno, lui ha cast immensi e tutto funziona in armonia e alla perfezione.
Mentre invece l'esperienza di Sin City? Direi che anche in Sin City, nonostante gli schermi verdi e il mondo immaginario, anche lì si tratta di recitare.
Meglio l'interazione o il green screen? Nessun attore è meglio della scena in cui si colloca, mi hanno insegnato. Certo che quando due attori si trovano insieme, il risultato è migliore: il ritmo soprattutto, è come giocare a tennis se giochi con uno più bravo giochi meglio.
Un film che amiamo molto è I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, dove ha recitato tra l'altro con Michael Caine. Una leggenda, lavorare con lui mi ha fatto capire perché è il mostro sacro che è: fa sembrare tutto facile e tutto semplice. Mi era stato offerto un altro film dove avevo una parte splendida, ma non lo era altrettanto il copione. Lo script de I figli degli uomini mi ha completamente catturato, Alfonso Cuarón mi ha comunicato l'idea del film che voleva fare, io sapevo solo che volevo esserci, contribuire. Mi andava bene che non ruotasse tutto intorno a me, l'attore lavora per la scena non per sé stesso. Forse proprio perché non ero il protagonista assoluto, questo mi ha permesso di costruire il personaggio con maggiore libertà.
Il film Croupier è stato fondamentale per la sua carriera.
Non ne eravamo pazzi onestamente a lavoro ultimato. La verità è che in America è stata fatta un'ottima campagna al film, tutta basata sulla mia performance, è stato promosso molto bene ed è riuscito ad avere un po' di visibilità. Mike Hodges è un regista fantastico, bizzarro, insolito: questo film mi ha dato nuova vita in America, un piccolo film ma per me ha avuto un impatto enorme.
Welcome Dr. Thackery
Parliamo del serial The Knick. É vero che aveva dubbi sul look? Ha chiesto alla costumista 'ma posso vestirmi come un David Bowie del 900?' Per lei il personaggio era proprio qualcosa del genere. Mi ha proposto questi stivali bianchi che io ho adorato. Il personaggio in effetti è molto sfacciato e sicuro di sé, come una rockstar degli ospedali. La costumista mi ha incoraggiato, mi diceva 'Ehi, tu sei il dr. Thackery, puoi fare tutto quello che ti pare'.
Fa una lunga ricerca per i suoi personaggi o si basa sull'intuizione? Dipende dal film. Per Hemingway della HBO ho fatto una ricerca spaventosa, sono andato a Cuba, ho letto tantissimo. Per il resto dipende dal quanto ci credi e come ci arrivi, non credo troppo in un certo tipo di 'metodo': non è che per essere credibile come agente segreto devo aver lavorato alla CIA per anni. L'importante credo e capire fino in fondo la sceneggiatura.
Le passioni: il Liverpool e... Monica!
É vero che è tifoso dell'Inter oltre che del Liverpool? Sono un fans sfegatato del Liverpool e si... mi è capitato di andare a vedere qualche partita dell'Inter.
C'è un'attrice italiana con la quale vorrebbe lavorare? Ho lavorato già con quella che mi piaceva più di tutte: Monica Bellucci, bellissima e bravissima.
Come riesce a fare così bene tutte le volte l'accento americano? Quando ho cominciato non ero molto bravo, poi per fortuna ho trovato un assistente specializzato negli accenti, esperto dei dialetti e delle lingue, fonetica, trascrizione del suono... lui mi ha aiutato molto. Poi sul set scompare, non so mai dov'è, ma ti rendi conto che il suo lavoro ha agito in profondità.
Clive instinct
Un personaggio che non hai mai fatto è che vorrebbe fare? Non ce n'è uno specifico. In effetti la cosa che amo di questo mestiere e proprio la possibilità di prendere quello che capita, essere sorpreso da qualcosa che non ti aspettavi o non avevi programmato. Amo il fatto che qualcosa di splendido può spuntare fuori da dietro l'angolo all'improvviso.
Quindi non è mai necessariamente sempre sicuro di ruoli che sceglie? No, non sono mai sicuro, ma sono molto istintivo. Molte volte mi sono sentito dire 'questo ruolo lo devi proprio fare, non te lo puoi far scappare' e puntualmente io non lo facevo. Altre cose mi hanno colpito e anche se le aspettative non erano il massimo io le ho fatte. Sono un istintivo.