Dopo la proiezione per la stampa di Hollywoodland, pellicola in competizione che narra un'indagine sulla misteriosa morte di George Reeves, che interpretò il primo Superman televisivo negli anni '50, regista e interpreti con il produttore Glenn Williamson si concedono ai cronisti in conferenza.
La serie interpretata da George Reeves non è conosciuta da noi. Pensate che questo possa essere un problema per la ricezione di Hollywoodland?
Ben Affleck: Io credo che Superman sia un'icona conosciuta in tutto il mondo, e si porta dietro un immaginario molto risonante; per questo penso che, anche se la serie in questione non è particolarmente nota in Europa, basterà la fama di Superman a far capire che cosa significava per il mio personaggio interpretarlo.
Il film racconta una storia molto appassionante per gli americani, uno dei molti casi irrisolti della cronaca divistica. Com'è nato il rapporto con questa storia per il regista?
Allen Coulter: Quando m'imbattei nel progetto, stavo lavorando per la televisione. Non cercavo un ingaggio per un film, ma ero aperto anche a questa idea. Lo script mi convinse subito. Lo sceneggiatore aveva saputo raccontare una storia vera catturandone la drammaticità e descrivendo un momento chiave nella storia della televisione americana, la fine di un'era e l'inizio di una nuova fase, che poi è quella che stiamo vivendo noi oggi.
Ben Affleck, nel film George Reeves deve fare i conti con le aspettative del pubblico nei confronti della sua vita. Per lei come star di Hollywood è la stessa cosa?
Ben Affleck: Credo che oggi, rispetto algli anni '50, il rapporto di un attore con il suo lavoro e il pubblico sia ancora più complesso. A volte il pubblico riesce a relazionarsi particolarmente bene con un attore e i ruoli che interpreta. In questo film si descire una notevole confusione tra l'uomo e l'icona che interpreta, il pubblico non riesca a capire la natura dell'illusione.
E' vero, c'è molta attenzione da parte del pubblico nei confronti della vita privata delle star, che è una sorta di soap opera che procede parallelamente alla loro effettiva carriera cinematografica. Per me questa non è una cosa buona per gli attori, perché va a discapito della suspension of disbelief che è importante per il successo delle interpretazioni.
Per George Reeves fu molto doloroso, perché lui tentava di fare qualcosa di diverso, ma il pubblico continuava a vederlo come lo voleva vedere, cioè come Superman. Ma è qualcosa con cui devi fare i conti giorno dopo giorno. Non so quele sia il segreto, forse lo conosce Adrien...
Adrien Brody: Non ci sono segreti. Credo che la causa del fenomeno sia il fatto che noi creiamo con i personaggi che interpretiamo un diverso livello di credibilità, e se ci riusciamo si crea una connessione tra il personaggio e il publico. E' quello che io cerco di fare ogni volta. Ovviamente se vedi qualcuno e dividi con lui momenti intimi credi di conoscerlo profondamente: e credi di conoscere profondamente anche l'attore.
Uno degli aspetti più interssanti di questo film, è il fatto che il mio personaggio, che non è un attore ma un detective, riflette su quello che la vita di un detective dovrebbe essere e non è, e questo a causa del modo in cui il cinema stesso ha dipinto i detective. Il processo di identificazione, quindi, va oltre il rapporto tra attore e pubblico.
Questo film, come quello che lo ha preceduto qui a Venezia, The Black Dahlia, parla di una morte a hHollywood ed è un noir. Lei crede che il noir stia torrnando in auge a Hollywood?
Glenn Williamson: Io penso proprio che sia una coincidenza il fatto che siamo arrivati qui insieme a The Black Daahlia, questo script è stato proposto nel 2001. Ma di sicuro esiste una particolare fascinazione legata alla morte e a Hollywood.
E' una cosa tipica del cinema americano: si dice, vai a Los Angeles e diventerai famoso, ma se ci muori diventerai una leggenda.
Qualcuno ha detto della morte di John Lennon che la morte è l'ultimo passo di una carriera. Lei che ne pensa? Glenn Williamson: Forse è vero che in qualche caso la morte favorisce la carriera, c'è più interesse per chi muore prematuramente al picco della fama, ma come mossa professionale non la consiglierei a nessuno che conosco...
Ben Affleck: Personalmente preferirei non essere famoso piuttosto che morto!
Diane Lane, che ha significato interpretare una moglie di quei tempi ad Hollywwod e come lo mette in relazione al suo ruolo di attrice oggi?
Diane Lane: Toni Mannix era parte di di Hollywood e il suo matrimonio con Eddie era moderno per quei tempi loro matrimonio, con il fatto che uscivano in quattro con i rispettivi amanti! Dà l'idea di un tipo di uniione che è più che altro un contratto, mettendo da parte il romanticismo. D'altra parte le donne di Hollywwod negli anni '50 avevano molto più potere e erano un maggiore richiamo al box office. Penso con una certa inviadia al mondo dello show business negli anni '50, c'era meno confusione e più controllo nel nostro lavoro.