Esattamente un anno fa, l'episodio intitolato Il funerale chiudeva la quarta stagione di Homeland in maniera del tutto particolare: archiviati con una puntata d'anticipo l'azione e gli intrighi, il season finale si concentrava invece sul "ritorno a casa" di Carrie Mathison, costruendo un epilogo malinconico ed elegiaco, segnato dal lutto per la scomparsa del padre di Carrie e dal bilancio esistenziale di una donna (e madre) sul punto di prendere un'importante decisione riguardo il proprio destino.
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Una struttura e un'atmosfera analoghe sono quelle che ci propone, a un anno di distanza, anche il capitolo conclusivo della quinta stagione di Homeland, A False Glimmer: un episodio in cui la suspense è concentrata in una manciata di minuti iniziali, per poi lasciare spazio a stati d'animo, attimi privati e scelte sofferte dei vari protagonisti, alle prese con le conseguenze delle proprie azioni e impegnati a riflettere su un futuro quanto mai incerto. E se invece almeno una sicurezza sul futuro di Carrie ce l'abbiamo già (Showtime ha rapidamente confermato la serie per una sesta stagione), proviamo ora ad esaminare i vari aspetti di A False Glimmer, ma pure cosa ha funzionato di più (e cosa meno) di questa quinta stagione...
Minacce sventate e falsi spiragli
Il precedente Our Man in Damascus, episodio concitatissimo e ricco di twist, si era chiuso su un perfetto cliffhanger: Carrie, dopo aver avvisato la direzione della CIA, si inoltrava in un tunnel della metropolitana di Berlino, decisa a fermare gli attentatori in procinto di scatenare un massacro nel cuore della capitale tedesca. E all'inizio di A False Glimmer, la tormentata eroina interpretata da Claire Danes riesce a sventare il piano dei terroristi. La donna convince Qasim (Alireza Bayram), l'anello debole della cellula, a fermare suo cugino Bibi Hamed (René Ifrah): ne consegue una sparatoria nel corso della quale perdono la vita entrambi gli uomini, mentre Carrie può tirare un sospiro di sollievo per il pericolo scampato. Da questo momento in poi, il resto della puntata prosegue in 'discesa', disattendendo probabilmente le aspettative di chi sperava in un finale adrenalinico, sulla scia di quelli visti nelle prime - e inarrivabili - stagioni.
Dal punto di vista privato, invece, la parabola di Carrie si conclude con una doppia débâcle. Prima, il tentativo di ricostruire la sua relazione con Jonah Happich (Alexander Fehling), il quale però, dopo gli ultimi istanti di passione, le annuncia la propria decisione: interrompere una storia d'amore che non gli garantirebbe mai la stabilità e la sicurezza di cui ha bisogno. Subito dopo, il "falso spiraglio" di luce sulla sorte di Peter Quinn (Rupert Friend): immobilizzato in un letto d'ospedale e privo di coscienza, Quinn subisce una grave emorragia cerebrale, tale da ridurlo in uno stato vegetativo. Carrie, al suo capezzale, riceve da Dar Adal (F. Murray Abraham) una lettera che Quinn aveva scritto per lei un anno prima. Pochi giorni dopo, consapevole del fatto che Quinn non si riprenderà più da questa condizione, e a conoscenza delle volontà dell'uomo, Carrie compie un estremo atto di lealtà nei confronti del suo ex collega, mentre un flebile raggio di luce trapela dalla finestra della camera di Quinn.
"I guess I'm done, and we never happened..."
Il rimpianto per un amore mai vissuto, ma anche la serena accettazione di una sorte a cui non sarebbe stato possibile sottrarsi senza rinnegare la propria natura. È questa l'essenza della lettera indirizzata da Quinn a Carrie: un espediente narrativo magari un po' forzato, ma funzionale per un doveroso commiato da uno dei personaggi storici di Homeland. Fin dalla sua entrata in scena, Quinn, braccio armato della CIA ed esecutore delle missioni più rischiose, è apparso come un ideale alter ego di Carrie: completamente votato a una professione vissuta come una vocazione, come un impegno totalizzante da perseguire fino in fondo, costi quel che costi. La difesa della sicurezza nazionale e la lotta contro il terrorismo sono stati da sempre i motori di ogni decisione di questi due agenti, legati da un feeling speciale che, ciò nonostante, non è mai sfociato in una vera e propria relazione, nonostante gli indizi di un'attrazione spesso soffocata.
Elementi che rendono l'addio di Peter Quinn ancora più triste, a dispetto di una stagione in cui il suo personaggio non è stato sfruttato adeguatamente. Come avevamo già rilevato nel nostro commento midseason, quest'anno il percorso di Quinn è apparso fin troppo slegato da quello degli altri comprimari della serie, come una sorta di appendice del racconto che, come da programma, si è ricongiunta alle altre storyline soltanto verso il finale. È stato uno dei limiti di una quinta stagione nel complesso soddisfacente ma, a conti fatti, nettamente inferiore all'ottima quarta stagione, tanto a livello di coesione narrativa e di livelli di suspense, quanto sul piano della riflessione morale attorno alle scelte dei personaggi. Intendiamoci: Homeland rimane una delle serie più intriganti e coinvolgenti della TV americana, eppure questa "trasferta berlinese" ha sollevato, di volta in volta, pure diverse perplessità a causa di passaggi non proprio impeccabili.
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Ambiguità morale e finali frettolosi
Incrinare il manicheismo fra "buoni" e "cattivi" per sprofondare al contrario lo spettatore in un'immensa "zona grigia" dai confini indistinti, costringendolo a porsi degli interrogativi sulla responsabilità morale e sul senso di (in)giustizia di azioni a dir poco discutibili. Fin dai suoi esordi, e in barba a chi ha superficialmente attribuito alla serie una presunta ideologia reazionaria (la questione, per fortuna, è ben più complessa), Homeland ha rinunciato ai facili schematismi per mettere i suoi protagonisti di fronte a situazioni e dilemmi assai problematici, e in più di un'occasione ha confuso le carte, mostrando compromessi etici consumati su tutti i fronti. Per una serie calata, anche da questo punto di vista, in una modernità tutt'altro che rassicurante, A False Glimmer si conferma un finale disturbante e per nulla trionfalistico: a partire dall'uccisione di Allison Carr (Miranda Otto), la superba villainess (termine riduttivo, si badi bene) di questa quinta stagione.
In fuga verso la Russia dopo aver pugnalato alle spalle i suoi colleghi della CIA, Allison va incontro a una fine decisamente inquietante: crivellata di proiettili mentre è nascosta nel portabagagli di un'auto guidata da due agenti russi, in quella che rappresenta, a tutti gli effetti, una vigliacca esecuzione a sangue freddo ordinata da Saul Berenson (Mandy Patinkin). Mentore di Carrie, considerato nelle prime stagioni un punto fermo a cui fare costante riferimento, Saul ha svelato con il tempo debolezze e ambiguità: da qui il contrasto - tuttora irrisolto - con la sua ex allieva ed amica, e da qui la condanna a morte, che somiglia piuttosto a una vendetta personale, per Allison, dalla quale era stato tradito come partner di lavoro e come amante. Un epilogo però non del tutto soddisfacente, per una delle figure più interessanti di questa stagione; così come è apparsa frettolosa anche la chiusura della storyline dedicata alla giornalista americana Laura Sutton (Sarah Sokolovic), con le ovvie allusioni alla vicenda di Julian Assange e una luce sinistra a illuminare l'operato di Astrid (Nina Hoss), la quale costringe la Sutton a dichiarare il falso con un subdolo ricatto che potrebbe costare la vita di un uomo innocente.
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Quale futuro per Carrie?
Fra i punti deboli della quinta stagione, inoltre, bisogna annoverare pure la sottotrama romantica fra Carrie e Jonah: un subplot che ha perso progressivamente importanza, confinando Jonah in un angolo della narrazione e sfociando quindi in una rottura di scarso pathos. Piuttosto bizzarro anche l'ultimo dialogo fra Carrie e il suo datore di lavoro, il filantropo e uomo d'affari Otto Düring (Sebastian Koch), il quale infine dichiara i propri sentimenti per la donna, ma con un pragmatismo che rasenta la freddezza: un post scriptum fuori tempo massimo e davvero poco necessario, che non aggiunge pressoché nulla all'evoluzione di Carrie e alle sue prospettive per il futuro. La nostra eroina ha declinato l'offerta di Saul di rientrare nei ranghi della CIA ("Non sono più quel tipo di persona", la sua serafica risposta), ma risulta difficile immaginare che il suo personaggio possa prendere una direzione diversa in vista della prossima stagione. Un reintegro tra le file della CIA sembra al contrario la soluzione più lineare e adatta, nella speranza che per l'anno prossimo gli autori siano in grado di correggere i difetti di quest'ultima stagione evitando al contempo di scivolare in una stanca reiterazione di quanto visto in precedenza. Certo, dopo cinque anni e un totale di sessanta episodi non è un'impresa facile, ma da una protagonista del calibro di Carrie Mathison possiamo e dobbiamo aspettarci il meglio...
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