Quando si materializza per la prima volta sullo schermo, Martin von Essenbeck emerge dall'oscurità della sala nel cerchio luminoso di un riflettore, con una parrucca di riccioli biondi, un cilindro inclinato sul capo e un boa di struzzo attorno alle braccia nude. Il film è La caduta degli dei e a riprodurre l'icona di Marlene Dietrich, evocata dalla scena più famosa de L'angelo azzurro, è il venticinquenne Helmut Berger, che lo stesso Luchino Visconti aveva fatto esordire appena due anni prima nella pellicola a episodi Le streghe. È già trascorso quasi un quarto d'ora dall'inizio de La caduta degli dei, affresco storico della Germania all'alba del Terzo Reich, ma da quel momento in poi quasi l'intera opera sarà 'cannibalizzata' da Martin, o meglio dalla presenza magnetica e ineludibile del suo interprete.
Billy Wilder, che con la vera Marlene aveva lavorato in più occasioni, dichiarerà con una punta di sarcasmo: "A parte Helmut Berger, oggi non ci sono più donne interessanti". E l'androginia, insieme a una marcata ambiguità sessuale, sarà in effetti uno dei tratti distintivi della prima fase della carriera dell'attore austriaco, scomparso il 18 maggio alla vigilia dei suoi settantanove anni. Una carriera che, dopo circa un decennio di successi, avrebbe intrapreso un rapido declino, portando l'ex-divo viscontiano a diradare sempre di più le sue apparizioni. Eppure, è bastata una manciata di ruoli impersonati prima di compiere trent'anni a consacrare Helmut Berger fra i volti-simbolo del cinema europeo: merito di un talento naturale, legato più all'istinto che alla tecnica, dell'incontro con Luchino Visconti, suo partner di vita e di set, e soprattutto di un potere di fascinazione che ha avuto davvero pochi eguali, ieri come oggi.
Quell'oscuro oggetto del desiderio
Con i suoi tratti quasi efebici, ne Il giardino dei Finzi Contini Helmut Berger ha incarnato la bellezza fragile e innocente di Alberto, rampollo do una famiglia ebrea di Ferrara: una bellezza appena sbocciata e già sul punto di appassire, complementare a quella sfrontata e vitalistica di Dominique Sanda nei panni di sua sorella Micòl. Sempre nel 1970, nello stesso anno in cui recitava per Vittorio De Sica nella trasposizione del romanzo di Giorgio Bassani, Berger si cimentava con la figura decadente per antonomasia della letteratura europea, Dorian Gray, in una rilettura in chiave moderna del classico di Oscar Wilde, Il Dio chiamato Dorian di Massimo Dallamano. In un'epoca in cui il cinema, specialmente in Europa, si spingeva oltre i consueti limiti nella rappresentazione della sessualità, per un attore come Helmut Berger si schiudeva un ventaglio pressoché infinito di possibilità, fra cui la parentesi hollywoodiana di Mercoledì delle ceneri, dove faceva da oggetto del desiderio della quarantenne Elizabeth Taylor.
Eppure nessuno, come Luchino Visconti, è stato altrettanto abile nel valorizzare la doppia anima insita nel corpo attoriale del giovane divo: da un lato una delicatezza quasi puerile, accentuata dalla limpidità dei suoi occhi celesti; dall'altro quella nota misteriosa e conturbante sprigionata da Helmut Berger quando si trovava alle prese con ruoli più enigmatici e sinistri. In tale ottica, Berger può essere considerato per certi versi un erede di Alain Delon (di soli pochi anni più grande di lui), ma anche una sua ideale nemesi: non tanto per averlo rimpiazzato nei favori di Visconti (al punto da aver imposto un veto al regista di Rocco e i suoi fratelli), ma perché, rispetto alla bellezza angelicata di Delon, Berger ne ha costituito una sorta di 'doppio' luciferino, il cui sex appeal era accresciuto da un quid di ineluttabile perversità. E in molti casi, la forza d'attrazione dei suoi personaggi è direttamente proporzionale all'aura di amoralità e di minaccia in cui sono immersi.
La caduta degli dei: nel film di Luchino Visconti le tenebre della Germania
L'enigma di un demone dal viso d'angelo
È un trait d'union che, dai capolavori viscontiani La caduta degli dei e Ludwig, nel 1976 si estenderà all'ufficiale delle SS Helmut Wallenberg in Salon Kitty, pietra miliare della nazisploitation, in cui Tinto Brass sembra quasi voler riprendere l'immagine del Martin von Essenbeck del film di Visconti, con una sfrontatezza che rasenta la parodia. Mentre è a suo modo geniale, per ragioni analoghe, la scelta di casting di Helmut Berger nei panni dello 'scellerato' Egidio nella miniserie televisiva I promessi sposi del 1989, dal romanzo di Alessandro Manzoni. Il periodo aureo della sua carriera era ormai alle spalle, anche a causa dell'avvio di un declino psico-fisico seguito alla morte di Visconti, nel 1976: un declino che, se lo aveva allontanato man mano dal cuore dell'attenzione mediatica, in compenso non ne aveva arrestato l'attività sul set. Quale attore più adatto, pertanto, a dar corpo alla decadenza di Yves Saint Laurent nel biopic firmato da Bertand Bonello nel 2014, con Berger in qualità di maturo alter ego del trentenne Gaspard Ulliel?
Ma ad aver consegnato Helmut Berger alla memoria collettiva sono stati in primo luogo i due personaggi a cui il suo nome e il suo volto restano indissolubilmente legati. Nel maestoso Ludwig del 1973, il ventottenne Berger dipinge un ritratto malinconico e commovente del Re di Baviera, consumato da una sotterranea inquietudine e dalla sua passione sfibrante per l'arte e la musica, che lo porterà a rinchiudersi in una dorata solitudine, vittima del suo stesso cupio dissolvi. E prima ancora La caduta degli Dei, in cui la follia autodistruttiva della Germania nazista trova un'agghiacciante personificazione nel suo Martin von Essenbeck: tutto il film si nutre del contrasto fra l'apparente candore del ragazzo e la sua indole demoniaca, fra l'armoniosa dolcezza del viso e la furia in grado di trasformarlo in una maschera mostruosa. Una dicotomia insanabile in cui, in fondo, risiede ancora oggi il segreto di un attore assolutamente unico.