Pochi argomenti al mondo sanno creare un dibattito vivace come la cucina. Basta scambiare l'ordine degli ingredienti di una ricetta e mettere un pizzico di pepe nero, dove prima era previsto dello zafferano, per iniziare a discutere animatamente e a scambiarsi informazioni sul proprio modo di interpretare la preparazione di una pietanza. E' quello che succede ai protagonisti del nuovo film di Lasse Hallström, Amore, Cucina e Curry, in uscita italiana il prossimo 9 ottobre, ovvero un cuoco indiano, Manish Dayal, e una chef stellata, Helen Mirren, che, dapprima ostili, per banali questioni di concorrenza, scoprono quanto profonda sia in realtà la loro affinità, nata dalla comune passione per la gastronomia. Una sintonia così forte da spingere la donna ad assumere Hassan e ad insegnargli i segreti della cucina francese, trasformandolo in uno chef da prima pagina.
Abbiamo incontrato il regista svedese a Roma, in una pausa del suo tour promozionale e con lui abbiamo parlato di cinema e anche di quella misteriosa alchimia che si chiama cucina. "Lo so che pensate ad un filo rosso con Chocolat, ma il fatto che si parli di cibo anche in questo film è stata solo una coincidenza - ha raccontato -, avrebbe dovuto girarlo Steven Spielberg, ma è stato trattenuto da un altro impegno così me lo ha gentilmente offerto. Già dieci anni fa avremmo dovuto lavorare insieme, ma non è stato possibile. Adesso vi dico che ho realizzato il sogno di poter lavorare con uno dei registi che ammiro di più. E' stato prezioso nei suoi commenti sullo script e nelle dritte sul montaggio. In questo caso si è trattato di un sostegno completamente diverso da quello che lo studio mi aveva dato all'inizio attraverso una serie di note. Quelle non mi piacevano e ho fatto in modo che non mi arrivassero più. Spielberg come produttore mi ha proposto soluzioni brillanti".
Cinema, cucina e cultura
Adattamento del romanzo di Richard C. Morais, The Hundred-Foot Journey, titolo che nella realtà allude alla distanza fisica ed ideale che separa i due ristoranti, Le Saule Pleureur e Maison Mumbai, il film di Hallström, prodotto anche da Oprah Winfrey, accumula una grande quantità di temi, come il forte legame tra cucina e memoria e naturalmente tra cucina e identità culturale. "In realtà non sapevo molto dell'India e della sua cucina - ha spiegato -, non posso parlare di idee preconcette, non ero sospettoso, ma avevo timore a lavorare con gli attori di nazionalità indiana, avevo paura che non sarei stato in grado di metterli a loro agio o, al contrario, non sapevo come avrei potuto limitarli in qualche modo; forse avevo davanti agli occhi i film di Bollywood. Alla fine sono rimasto entusiasta, siamo diventati una famiglia sul set, c'è stata un'unione molto forte e questo ha dimostrato ciò che il film ci racconta, ovvero che sono molte di più le cose che uniscono, rispetto a quelle che ci dividono".
Alla ricerca della stella (Michelin)
Bruciata dal desiderio di conquistare la seconda stella Michelin per il suo ristorante, quella destinata agli dei, Madame Mallory si lancia a testa bassa nel conseguimento del suo obiettivo, dimenticando per strada la passione di un tempo; Hassan, dal canto suo, diventato il numero uno degli chef europei, rinuncia alla fama, sentendo di non essere più sé stesso, per ritornare al piccolo paese francese che lo ha tenuto a battesimo dietro ai fornelli, certo che la stella più importante sia avere al suo fianco la donna che ama (Charlotte Le Bon) e la sua famiglia. Verrebbe da pensare ad una similitudine tra il giovane cuoco indiano e tutti quegli artisti che vengono stritolati dal meccanismo dello showbiz, esaltante e mortificante al tempo stesso. E' così importante il successo per un regista? "Penso di aver ricercato sempre la famosa stella d'oro - ci ha detto Hallström -, ricordo ancora con piacere i premi che prendevo da bambino. Vede, il successo, un successo di qualità, equivale ad avere un incoraggiamento e questa cosa mi piace! Noi artisti siamo anime fragili, abbiamo bisogno di sostegno e di autostima e questo vale anche per gli attori. Quindi, per rispondere alla sua domanda le dico sì, prendere una stella Michelin, metaforicamente ovviamente, è importante. Sfortunatamente non sarà mai la stella sulla Walk of Fame, temo di essere troppo svedese".
Cibo e memoria
Già Marcel Proust nel suo Alla ricerca del tempo perduto aveva parlato del "potere" del cibo di riportare alla memoria momenti della nostra vita. Madeleines o un piatto di gustosi ricci di mare in zuppa, poco cambia. Alcune pietanze aprono la porta dei ricordi. "E' vero, il cibo può essere un veicolo molto forte per riportarci a delle sensazioni o emozioni del passato. In certi casi penso che il cibo sia il solo modo di ricordare com'ero da bambino".
Il filo rosso di una carriera di successo
La mia vita a quattro zampe, Le regole della casa del sidro, Hachiko - Il tuo migliore amico, Il pescatore di sogni. La carriera di Lasse Hallström sembra contraddistinta da un filo rosso preciso, ovvero la ricerca di un'emozione il più possibile genuina. "Non esiste un criterio specifico che mi spinge a dirigere un film o meno - dice -, all'inizio scrivevo da solo le mie sceneggiature perché in Svezia non esisteva il ruolo dello sceneggiatore, quindi finivo per realizzare film sulle mie esperienze di vita. In America poi ho cambiato la mia visione del lavoro. Ho sempre amato il dramedy, però, quel mix tra momento forte e commedia, perché penso che sia la cosa più vicina alla vita. Ecco perché tento di essere il più autentico possibile. Quanto al fatto che i miei film siano spesso adattamenti di romanzi, posso parlare anche in questo caso di coincidenze. Mi piacciono le storie belle e renderle più vicine al mio sentire. Se alla base di un film c'è un libro splendido è tanto di guadagnato, vuol dire che posso sfruttare degli spunti che una sceneggiatura originale a volte può non avere".