Goodbye, my darling
Il ritratto di un giovane anarchico durante il regime fascista di Franco che lotta assieme ai suoi compagni del Movimiento Iberico de Liberaciòn per l'emancipazione della classe operaia, nonché l'ultimo prigioniero politico ad essere giustiziato in Spagna per l'assassinio di un ispettore di polizia durante un tentativo di fuga: è questo Salvador - 26 anni contro, film spagnolo passato lo scorso anno nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes, interpretato da un convincente Daniel Brühl, già giovane ribelle in rivolta contro la borghesia opprimente nel tedesco The edukators di qualche anno fa. La storia di Salvador Puig Antich che ha sconvolto la Spagna nel 1976 e, come puntualmente sottolineato nel film, è rimasta impressa nelle coscienze delle generazioni future diventa in questa pellicola diretta da Manuel Huerga un nuovo manifesto contro l'atrocità della pena di morte, qualunque sia il crimine commesso dal condannato.
Huerga costruisce un film, dall'appeal sicuramente giovanilistico, in due parti distinte: una per farci avvicinare e appassionare alla storia "contro" del protagonista, l'altra per accompagnarlo nelle ultime ore che precedono l'esecuzione della condanna. Ma la prima parte, costruita tutta con dei flashback commentati da Salvador in carcere che raccontano la sua storia fino all'arresto, coinciso con un omicidio accidentale per sfuggire alla trappola architettata ai suoi danni dalla polizia, è didascalica, stilizzata, con colori saturi e un montaggio sincopato in stile videoclip che fa apparire le imprese dei giovani rivoluzionario quasi un gioco infantile, esattamente come descritto dalla sorella più piccola di Salvador alle sue amiche. E così la rivoluzione dei giovani compagni in giacca e cravatta si risolve in qualche rapina alla banca di turno con un gran rumore di rivoltelle in azione a ritmo di rock. Alcune sequenze poi risultano francamente imbarazzanti sul piano della resa filmica, dall'immancabile corsa in moto per gridare un'incontenibile disperazione dopo la notizia della caduta di Allende in Cile, al parapiglia tra polizia e rivoluzionari con un ridicolo inseguimento tra gli alberi.
Più riuscita invece la seconda parte, ambientata in carcere durante l'attesa per una grazia che non arriverà mai. Ma Huerga anche qui non sa dimostrarsi all'altezza dell'evento narrato e si perde in inutili lungaggini, raccontando anche le virgole di una vicenda che diventa un lunghissimo strazio culminante nelle immagini dell'esecuzione alla garrota, strumento privilegiato per le condanne capitali in Spagna fino al 1976, costituito da un anello metallico utilizzato per spezzare le ossa del collo del condannato, e usato per l'ultima volta per uccidere proprio Salvador. I colori si fanno più scuri e le emozioni più intense, con un racconto che trova i suoi episodi migliori nel tormento interiore del padre e nello sbocciare di un'autentica amicizia tra il giovane e il suo sorvegliante, ma le drammatiche immagini dell'esecuzione sono troppo insistite e appare fuori luogo la sottolineatura della tragedia con la corsa disperata della sorellina minore mentre il feretro abbandona il carcere. Salvador commenterà la sua morte come un viaggio in aereo con la sensazione di vuoto nello stomaco subito dopo il decollo e un "goodbye, my darling" soffiato verso chi resta.
Sicuramente encomiabile questo spolvero di una memoria storica che funga da ennesimo ammonimento verso l'orrore della pena capitale, una mostruosità che ancora oggi vige in numerosi paesi del mondo, anche tra quelli più sviluppati, come l'America, l'esportatrice conclamata della Democrazia. Peccato solo che la sua resa non sia delle migliori, e che quegli ideali per i quali ha combattuto il giovane rivoluzionario spagnolo e ultimo garrotato non siano adeguatamente raccontati, in quel caos di colori e rumori in cui sceglie di impantanarsi Huerga, ma quando si parla di eventi così tragici e di tali ingiustizie ingiustificabili si può forse perdonare qualche lacuna ed apprezzare comunque il tentativo.