Reduce dal successo di Notturno, presentato alla 77° Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, Gianfranco Rosi sbarca alla Festa del Cinema di Roma, dove incontra il pubblico e ripercorre alcune delle tappe fondamentali della sua carriera. La chiacchierata con Antonio Monda, nell'ambito della serie di Incontri Ravvicinati che da anni animano la manifestazione capitolina, scorre tra le sequenze di alcuni dei suoi lavori più significativi e frammenti di film italiani che lo hanno influenzato. Venezia lo aveva consacrato nel 2013 con un Leone d'Oro a Sacro Gra, lo stesso non ha fatto, generando pure qualche polemica, con il suo ultimo documentario, girato per tre anni tra Siria, Iraq, Kurdistan e Libano. "Prima di girare Notturno ci sono voluti tre anni e sei mesi di ricerca", racconta. Una delle scene forse più strazianti e commoventi del film, quella di una madre che nel buio di una stanza ascolta i messaggi vocali di sua figlia ancora oggi prigioniera dell'Isis, è il frutto di uno dei suoi primi incontri in quei territori.
"Il marito della donna mi raccontò la sua storia e mi fece ascoltare quella voce, sono quattro ore di registrazione. Lui non voleva assolutamente apparire quindi non avevo idea di come girare la scena, ci perdemmo di vista e passò del tempo. Quando tornai si era risposato, ma volle lasciarmi quel telefono: non voleva più avere nulla a che fare con quella famiglia, mi disse solo che la madre della ragazza era stata liberata e si trovava a Stoccarda". Al suo rientro Rosi decide di raggiungerla: "La incontro, le do il telefono e le faccio ascoltare i messaggi. Quando le chiedo di filmare accetta. Quella scena è nata così, a distanza di due o tre anni da quando tutto era iniziato. La luce è unicamente quella del telefono, volevo che quella stanza diventasse uno spazio fuori dal tempo, spensi tutte le luci che c'erano".
Il documentario come trasformazione del reale: le influenze di De Seta e Bunuel
Grande osservatore della realtà, Gianfranco Rosi ha però un rapporto conflittuale con la macchina da presa: "Detesto filmare - rivela - I momenti più belli sono quelli della ricerca e degli incontri. Il mio cinema senza incontri non esiste, parto sempre da un'intuizione e mai da una sceneggiatura, ho una certa reticenza a filmare: con la cinepresa inizia il racconto e tutto cambia, tutto ciò che hai raccolto prima si trasforma in qualcos'altro e questo mi mette un'ansia incredibile. Ecco perché passo tanto tempo a trovare la luce giusta, è come rimandare quell'appuntamento".
Tra i film che ne hanno definito meglio il percorso artistico ci sono Los Olvidados di Luis Buñuel e l'italiano Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta: "Incontrai De Seta subito dopo aver girato Bodman, ma di lui non avevo mai visto nulla. Feci una gaffe imperdonabile... Questo film racchiude tutto il mondo di De Seta, c'è il rigore e la sua ossessione per il metodo, c'è il cinema, c'è la trasformazione del reale. De Seta sapeva trasformare il reportage in una narrazione, in un racconto, non aveva paura della realtà e della bellezza o di filmare ciò che si ha davanti. Oggi ci siamo abituati a un'idea di documentario per cui il vero coincide con una cinepresa sporca, che si muove, che cade per terra e si rialza; io invece credo che nasca come cinema e debba diventarlo ancora di più".
Il documentario per Rosi non ha più il compito di informare, ma di trasformare il reale in qualcos'altro e "di raccontare qualcosa che tocchi emotivamente chi lo guarda. Non amo la natura dogmatica o la dittatura del racconto del reportage, ogni spettatore avrà una sua visione".
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Un cinema fatto di incontri
Da Boatman al più recente Notturno il suo è un cinema di incontri fortuiti e intuizioni: "Boatman fu un infinito, non aveva budget - ricorda - Mi ritrovai a Benares, in India, ci rimasi per mesi e mesi. Quando arrivai c'era il coprifuoco e non sapevo come muovermi per arrivare dall'aeroporto all'albergo, non c'erano taxi; così incontrai una famiglia con un carretto e accettai un passaggio. Salii a bordo e poco dopo mi accorsi che in mezzo a noi c'era un cadavere. Fu il mio primo incontro con la morte". Per due mesi, racconta, non girò assolutamente nulla, "lasciai la cinepresa in hotel e feci il turista, un giorno andai sul Gange e incontrai un barcaiolo meraviglioso. Passai una giornata intera con lui, in quel momento mi accorsi di quale fosse il film che volevo fare. Tutto il resto fu un viaggio infinito per rievocare quella giornata passata con lui. Lo incontravo, giravamo, terminavo il budget e ripartivo".
Fu un incontro, in questo caso con Charles Bowden, anche quello da cui nacque El sicario - Room 164, il documentario su un ex sicario del cartello messicano, realizzato con duemila dollari che gli aveva dato Jacopo Quadri e che gli servirono perché accettasse di essere intervistato: "Lo aspettai nella camera di un motel dove mi aveva dato appuntamento. Era una stanza assurda, avrei voluto essere Herzog, ma non lo ero. Mi domandavo come avrei potuto filmarlo e dove; alla fine trasformai quella camera in un set". Portò a casa le riprese ma rispettando alcune delle condizioni, che gli erano state imposte dal sicario: "Non potevo filmare né viso né mani. Arrivò con un passamontagna, poi gli passai una rete mimetica e gli chiesi di indossarla, da quel momento iniziò la costruzione del personaggio. Girai un film con un'unica inquadratura".
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