Quando le luci si spengono e quel viso emerge dall'oscurità e lei ti guarda con quei grandi occhi misteriosi, l'effetto è avvincente. Lei ha qualcosa che non abbiamo visto sullo schermo da tanto tempo. Ha una magia. È una femme fatale.
Le parole di Robert Evans, il produttore di Chinatown, ci suggeriscono con una certa efficacia ciò che ha reso Faye Dunaway una delle personalità più incisive e magnetiche nella storia del cinema americano. Fra le dive per antonomasia della New Hollywood, l'attrice nata in Florida il 14 gennaio 1941, in un paesino di nome Bascom, ha saputo incarnare forse meglio di chiunque altro un connubio piuttosto insolito: da un lato un fascino aristocratico, impenetrabile, a corredare una bellezza fiera e talvolta quasi algida, paragonabile a un'allure alla Greta Garbo; dall'altro un'inquietudine sotterranea ma incandescente, squisitamente moderna, che trapela come un lampo nella gestualità irrequieta e attraverso quello sguardo profondissimo e penetrante.
Se fosse nata ai tempi della Golden Age di Hollywood, è assai probabile che Faye Dunaway sarebbe diventata comunque una star di prima grandezza; nella Hollywood a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, il suo si è affermato come il volto femminile più iconico del cinema americano dell'epoca, insieme con quello di Jane Fonda. Una popolarità legata al suo talento formidabile, ben affilato da una lunga esperienza sul palcoscenico, e ai numerosi film di cui è stata protagonista. A partire dal suo fragoroso debutto sullo schermo, nel 1967, e dall'istantanea consacrazione raggiunta quello stesso anno con l'indimenticabile Gangster Story, Faye Dunaway si sarebbe distinta infatti per l'eleganza glamour e sofisticata espressa in titoli quali Il caso Thomas Crown, al fianco di Steve McQueen, Amanti di Vittorio De Sica, in cui divide la scena con Marcello Mastroianni, e Mannequin - Frammenti di una donna, esordio alla regia di Jerry Schatzberg.
Se negli anni Settanta la sua filmografia è stata scandita soprattutto da enormi successi, inclusi L'inferno di cristallo e I tre giorni del Condor, un capitolo a parte lo meriterebbe il famigerato Mammina cara di Frank Perry, che nel 1981 avrebbe azzoppato la carriera cinematografica di Faye Dunaway, complice il sorpasso della soglia dei quarant'anni in un'industria alquanto ingenerosa verso le attrici sopra gli 'anta'. Eppure il suo ritratto di un'altra leggenda della celluloide quale Joan Crawford, per quanto forsennatamente istrionico e sopra le righe (come il film stesso, del resto), è stato fondamentale nel rendere Mammina cara una pietra miliare del camp anni Ottanta, tanto da aver portato la sua 'mostruosa' Crawford nella classifica dell'American Film Institute dei migliori villain dello schermo. E a testimonianza di un percorso professionale ricchissimo e denso, di seguito ripercorreremoalcuni dei migliori film di Faye Dunaway, fra classici intramontabili e piccole perle da riscoprire.
5. Barfly - Moscone da bar (1987)
E fra le perle da riscoprire, appunto, c'è una delle pellicole che, nella seconda parte della sua carriera, le avrebbero fatto riguadagnare gli elogi della critica: Barfly - Moscone da bar, diretto nel 1987 da Barbet Schroeder sulla base di un copione autobiografico del poeta Charles Bukowski, il cui alter ego, Henry Chinaski, nel film ha il volto di Mickey Rourke. Faye Dunaway conferisce elementi di fascino e vanità alla figura di Wanda Wilcox, che trascorre le proprie serate nei bar di Los Angeles, aggiungendovi però il senso di disillusione e di amarezza di una donna irrimediabilmente danneggiata e ormai senza prospettive, se non quella di abbandonarsi ai fumi dell'alcol e all'effimera ebbrezza di un nuovo amore.
4. Arizona Dream - Il valzer del pesce freccia (1993)
Buffa e imperiosa, determinata e vulnerabile, neurotica e tenera: è un coacervo di contraddizioni Elaine Stalker, donna di mezza età che, nella desolata provincia dell'Arizona, conquisterà il cuore di Axel Blackmar (Johnny Depp), un ragazzo appena arrivato da New York e ingaggiato per vendere Cadillac dallo zio Leo Sweetie (Jerry Lewis). Prima e unica produzione statunitense di Emir Kusturica, datata 1993, nonché tra i migliori film del regista serbo, Arizona Dream - Il valzer del pesce freccia è una stralunata commedia a cui Faye Dunaway e un ventinovenne Johnny Depp, in virtù di una sorprendente alchimia, riescono a infondere un irresistibile senso di romanticismo, che culminerà nella scena del 'volo' tanto desiderato dalla volitiva Elaine.
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3. Gangster Story (1967)
Un personaggio come Bonnie Parker sarebbe la punta di diamante di qualunque filmografia; ma nel caso di Faye Dunaway, è solo uno dei tre ruoli indelebili in altrettanti film entrati nel novero dei capolavori della New Hollywood. Fenomeno di massa nel 1967 e autentico film-manifesto della New Hollywood, Gangster Story di Arthur Penn (titolo italiano di Bonnie and Clyde) rievoca le imprese criminali della famosa coppia di fuorilegge nell'America della Grande Depressione; e accanto al Clyde Barrow di Warren Beatty, la Bonnie Parker della Dunaway si staglia come un'antieroina seducente e sfrontata, animata da una gioiosa incoscienza.
Con il suo caschetto biondo, il basco nero inclinato sul capo e la sigaretta sospesa fra le labbra, la protagonista di Gangster Story si è imposta fra le icone della controcultura di fine anni Sessanta, e il merito è da attribuire proprio allo spontaneo carisma della sua interprete, fortemente voluta da Arthur Penn, e che per questo suo primo cult si sarebbe aggiudicata il BAFTA Award come miglior attrice emergente e la nomination all'Oscar come miglior attrice.
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2. Chinatown (1974)
Una presenza elegantissima, silenziosa e altera: la prima apparizione di Evelyn Mulwray in Chinatown, capolavoro noir diretto nel 1974 da Roman Polanski, è degna di certe dark lady degli anni Quaranta, ma con un alone tragico che si farà via via più evidente nel corso di questo torbido intreccio giallo. Dalla veletta nera ad accentuare la natura sfuggente della donna alla sinuosa linea porpora disegnata dal rossetto, Evelyn Mulwray è un personaggio tanto ermetico quanto ammaliante, che infatti non tarderà ad irretire il detective Jake Gittes di Jack Nicholson. E Faye Dunaway, preferita da Polanski a Jane Fonda, si rivela l'attrice perfetta per questo ruolo, che le sarebbe valso una seconda candidatura all'Oscar: indossa l'archetipo della femme fatale ma al contempo lo demolisce dall'interno, suggerendoci, anche solo con i suoi sguardi, l'abisso divorante che ribolle nell'animo di Evelyn.
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1. Quinto potere (1976)
"Tu sei la televisione incarnata, Diana: indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia. Tutta la vita si riduce a un cumulo informe di banalità: guerre, morti, delitti... sono uguali per voi, come bottiglie di birra". Diana Christensen, direttrice della programmazione di un fittizio network televisivo, è il simbolo di quel sistema disumanizzante dipinto nel 1976 dallo sceneggiatore Paddy Chayefsky in Quinto potere di Sidney Lumet, con profetico anticipo su certe derive della TV degli anni a venire. E Faye Dunaway si immerge nel ritratto di questa donna cinica e senza scrupoli con adesione completa, facendone un personaggio vibrante di energia, ma dotato anche di un magnetismo che finirà per catturare il maturo Max Schumacher (William Holden), a capo della divisione notizie.
In Quinto potere, la Dunaway è davvero una forza della natura: di volta in volta sensuale o tagliente, spesso nell'arco di una manciata di secondi, e pronta a tuffarsi verso i lati più estremi di una figura alla quale è impossibile staccare gli occhi di dosso. Ed è proprio tale intensità a rendere la prova di Faye Dunaway, ricompensata con il premio Oscar e il Golden Globe come miglior attrice, una performance a dir poco superlativa: un ingrediente essenziale del capolavoro di Sidney Lumet e il coronamento di una carriera fuori dal comune.
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