Le mode passano, il cinema (orientale e occidentale) cambia, ma Jackie Chan resta. Sembra essere questa, oggi più che mai, la morale del cinema d'azione, quello più venato di commedia, di questo decennio ormai giunto alla sua seconda metà. L'attore/regista/coreografo hongkonghese, infatti, non pago nonostante l'età (e gli oltre quarant'anni di carriera) continua a proporre il suo cinema a platee sempre più globalizzate; dividendosi tra Cina, Hong Kong e Hollywood, confermandosi icona che va oltre il ristretto campo delle arti marziali, proponendosi anche (con un pizzico di enfasi, frutto dei tempi) come veicolo della cultura cinese nel mondo.
Il Far East Film Festival di Udine, da sempre vettore in Italia (anche) del tipo di cinema proposto da Chan, annovera quest'anno l'attore come sua presenza di punta; a lui, infatti, è dedicata l'apertura della manifestazione, con il kolossal (esempio di contaminazione tra wuxiapian e peplum) Dragon Blade di Daniel Lee (che vede anche la presenza di due star occidentali come John Cusack e Adrien Brody). Il regista cantonese ha presentato il film ai giornalisti intervenuti a Udine insieme a un Chan incontenibile, naturalmente istrionico, ma anche molto chiaro nei concetti espressi; concetti che sviscerano passato, presente e futuro di una carriera dai tratti pressoché unici.
Nuovo cinema e globalizzazione
Chan, cosa pensa dell'americanizzazione della cultura cinese? Pensa sarà ancora possibile, per la Cina attuale, proteggere la sua cultura?
Jackie Chan: Più di 30 anni fa provai a portare il nostro cinema in America, con La corsa più pazza d'America: usai un tipo di azione tipicamente cinese, ma non funzionò. Vent'anni dopo, è stata l'America ad invitarmi, e il momento era quello giusto. Quando si esporta qualcosa all'esterno, bisogna sempre farlo al momento giusto; io credo che dovremmo portare non solo la cultura americana in Cina, ma anche portare là tutto ciò che è Asia. I film parlano una lingua internazionale, e possono unire tutti.
La Cina è in grado di competere, ora, con i successi americani? Potrebbe questo film rappresentare il simbolo di un nuovo status per il cinema cinese?
Daniel Lee: Questo è il primo film in cui riesco a lavorare con attori americani, ma il motivo principale per cui l'ho girato è la storia, che ritenevamo buona. La mia attenzione, attualmente, è puntata solo sul girare nel miglior modo possibile. Su questo film abbiamo lavorato con Jackie per sette anni in tutto: speriamo di recuperare i soldi che abbiamo speso per girarlo, il mio auspicio è che vada bene.
Il messaggio e il botteghino
Il successo si misura in genere al botteghino: ci sono film, nella storia del cinema, che hanno avuto uno scarso successo di pubblico ma sono stati molto influenti sul cinema successivo. Secondo lei come si misura il "successo" di un film?
Jackie Chan: Quando ero giovane, molto tempo fa, i risultati del botteghino erano molto importanti: fare soldi, per me, era la prima cosa, la qualità veniva dopo, visto che dovevo nutrirmi e pagare le bollette. Poi il successo è arrivato, e sono diventato anche regista e produttore: allora ho assunto una responsabilità diversa. Un film come Drunken Master, per esempio, trasmette un messaggio in cui ora non mi riconosco: io ora vorrei dire al pubblico di non fare a botte e di non ubriacarsi. Voglio fare un cinema che trasmetta messaggi positivi, come fa Dragon Blade, che parla di pace e di armonia. Se, per questo film, il botteghino avesse dato risultato negativi, sarei comunque felice: oggi di soldi ne ho a sufficienza, e voglio primariamente fare qualcosa che sia giusto. Un film di cassetta può essere dimenticato subito, ma ci sono film visti da pochi che vengono ricordati.
A differenza di Bruce Lee, lei ha fatto anche film con un approccio filosofico, educativo. Come vede gli sviluppi futuri della sua carriera?
Io ho continuamente cambiato il mio carattere, non sono più giovane: ora voglio essere un attore completo. Mi piacerebbe essere il Robert De Niro asiatico: oggi, quando i bambini mi vedono, vedono la star dei film di kung fu, ma tra dieci anni vorrei che tutti dicessero: "Ah, Jackie Chan: un ottimo attore". Vorrei essere ricordato come un attore che sa combattere, ma anche fare altro. Mi piacerebbe soprattutto contribuire a promuovere la storia della Cina, attraverso il cinema, visto che la conosco bene.
È a disagio, ora, nel proporre un messaggio anti-violenza ma nel continuare a fare cinema d'azione? Non ci trova una contraddizione?
In effetti, per me è un dilemma: questo perché molti pensano che cinema d'azione significhi violenza, ma io in realtà fondo azione e commedia. Però c'è una specie di conflitto, è vero: ma io, comunque, cerco di fare tutto per illustrare che la violenza è sbagliata.
La genesi e la realizzazione
Potete parlarci della genesi del progetto?
Jackie Chan: Entrambi lavoravamo a Hong Kong, ognuno con la sua squadra: poi un giorno il mio cameraman, dopo il montaggio di un mio film, mi ha suggerito di incontrare Daniel Lee, e visto che mi fido molto di lui l'ho fatto. Ho capito che doveva essere una persona speciale, e quando mi sono presentato lui mi ha chiesto cosa poteva fare per me; io gli ho detto che in realtà volevo incontrarlo e vedere di fare qualcosa insieme. Così abbiamo cercato qualcosa di speciale: un mese dopo avevamo in cantiere storie poliziesche, di kung fu, ma alla fine abbiamo portato avanti un progetto di tutt'altro tipo. È servito un lavoro di ricerca molto lungo. Servivano anche comparse, tante, che rispecchiassero tratti i somatici dei romani. Abbiamo coinvolto un gran numero di studenti. Abbiamo girato per molto tempo nel deserto del Gobi, ed è stato un lavoro estremamente duro, stancante; al punto che alla fine tutti gli studenti volevano andarsene. La stampa ci ha anche chiesto perché mai non avessimo usato il green screen, ma noi volevamo trasmettere un'idea di realismo. Solo due registi, nella storia, hanno girato in quel deserto: il primo è Daniel Lee, il secondo... Daniel Lee.
Daniel Lee: E' un progetto che ha richiesto tempo, per affrontarne tutti i dettagli: è anche il film cinese col maggior budget della storia, quindi andava preso molto seriamente. La sceneggiatura a Jackie è piaciuta moltissimo: una volta trovato il cast tutto era sistemato. Due terzi del film li abbiamo girati interamente nel deserto del Gobi: non è stato facile né piacevole.
Come avete concepito ed eseguito le scene d'azione, e come le avete integrate con la recitazione?
Jackie Chan: Per prima abbiamo deciso lo stile che volevamo nella recitazione, e poi abbiamo deciso che le scene di lotta dovevano essere reali. Ci sono troppi film moderni in cui si vede gente che vola, ma a mio parere ciò è ridicolo: noi volevamo fare qualcosa di realistico. Non c'è computer grafica, qui, tutto ciò che vedete è reale. In questo film ci sono solo cose che un essere umano può fare... anche se magari non proprio tutti gli esseri umani!
Motore... azione!
In questo mondo digitale, il gesto dell'arte marziale, quella vera, ha ancora uno spazio nel cinema di Hong Kong?
Lentamente, purtroppo, queste cose sono destinate a sparire. Siamo rimasti in pochi ad essere in grado di eseguire stunt. Quanto noi ci ritireremo, non so se qualcun altro prenderà il nostro posto: in America si usa la CGI, e così tutti possono diventare stunt: ma io saltavo letteralmente da un edificio all'altro, mi sono anche rotto le ossa, ma avevo bisogno di soldi. La gente allora voleva vedere l'attore compiere azioni dal vero. Ora, invece, tutto viene fatto attraverso gli effetti speciali. La gente vuole ancora vedermi in azione dal vero, ma secondo me durerà... cinque anni. Poi, voglio solo fare scene d'amore!
Anche a Hollywood adesso si producono meno film di arti marziali. Cosa sta cambiando rispetto al passato?
Il film di arti marziali, in generale, è difficile da girare, ci vogliono attori adatti, che sappiano combattere e recitare. A Hollywood ce ne sono pochi che conoscono davvero le arti marziali, anche se tanti conoscono l'azione; poi ci sono gli effetti speciali, che li aiutano. Magari a volte la loro azione è meglio della mia, spendono tanti soldi per il digitale e gli effetti speciali: ma è vera azione?
Tra passato e futuro
Lee, lei ha diretto Til' Death Do Us Part, che è stato uno dei migliori film hongkonghesi degli anni '90; poi ha fatto un film come Black Mask. Da allora, però, ha cambiato il suo stile, ora sembra diventato più mainstream. Come mai?
Daniel Lee: Sono cresciuto, nel frattempo. Sono anche passati 20 anni: non credo che un regista debba rimanere sempre uguale a se stesso. Ho girato quei film e li amo, ma ora non voglio farne di uguali: vorrei fare film più psicologici, usare tutto il mio linguaggio per descrivere me stesso e il mio approccio al cinema. Comunque non credo di essere cambiato molto, tutto sommato: il mio stile e il mio modo di girare sono rimasti sostanzialmente gli stessi.
Chan, lei ha anche esordito nella regia che era molto giovane...
Jackie Chan: E' vero, a vent'anni ero un abile stuntman, a ventidue ero già regista: ho fatto tutto che ero molto giovane. All'epoca non c'era una scuola di registi, a Hong Kong: c'era solo il botteghino, mi si chiedevano solo film di combattimento. Per la mia prima regia, ricordo che andai a comprare in Inghilterra le apparecchiature migliori per fare film: in sette giorni ho girato e creato un set meraviglioso. Ho voluto sfatare l'idea che Jackie Chan non sapesse fare il regista: ma quando poi il film è uscito, ammetto che mi sono sentito un po' stupido. Ero troppo giovane.
In passato ha girato un film in Jugoslavia (Armour of God, ndr) Che ricordi ha di quel paese?
Non me lo scorderò mai: sono quasi morto, in Jugoslavia, ricordo che mi sono fratturato il cranio e mi hanno portato in ospedale. Tutti credevano che stessi per morire. Il film comunque ha avuto molto successo, in tutto il mondo.
Nell'immediato futuro, proporrà un cinema di impegno sociale, o preferisce restare nel settore delle arti marziali?
Io ho il mio stile, che non cambia: ho fatto i miei programmi per i prossimi 8 anni. Il mio prossimo film si intitolerà Railroad Tiger, e sarà ambientato negli anni anni '30 del secolo scorso, con Stanley Tong come regista. Mi piacciono le sfide, comunque, per questo ora ogni mio film è diverso dall'altro.