Dio appeso al chiodo
E' sempre più raro vedere nel cinema italiano un concetto scomodo espresso con lucidità e coraggio. L'ultimo film di finzione di Ermanno Olmi, prima del definitivo trasferimento nei territori più liberi del documentario, è un raro esempio di cinema audace, l'opera di un regista che non ha timori nell'esprimere chiaramente il proprio punto di vista su una questione scottante, con un garbo ed un eleganza che rendono ancor più illuminante questo suo attacco alla religione, e più in generale a quel mondo odierno anestetizzato da regole e norme scritte, e dalla presunzione di chi vuole imporre a tutti la propria Verità. Olmi, regista cattolico che riesce a sfuggire con grande intelligenza all'arroganza di una Chiesa mortificante, in questo suo ultimo film sceglie di appendere Dio al chiodo, quel Dio in nome del quale si giustificano guerre, martiri e abomini quotidiani, dice no a quella Chiesa che inquina la vita politica e sociale di un paese con atti di terrorismo spirituale, e invoca un ritorno alla parola di Gesù Cristo, al suo insegnamento del perdono e al suo stare in mezzo agli uomini ed ascoltarli, ma il Cristo a cui egli si riferisce è anche quello che può abitare dentro ogni uomo.
I cento chiodi del titolo sono quelli piantati da un giovane professore di filosofia in altrettanti libri della Biblioteca dell'Università di Bologna, un atto simbolico ed estremo che manda in subbuglio le istituzioni (la Chiesa, l'Università, la Polizia). Fuggito, in decappottabile, dal luogo del delitto, deciderà di inscenare un suicidio e abbandonerà tutto ciò che rappresenta ormai il suo passato, ad eccezione di carta di credito, computer portatile e qualche vestito, rifugiandosi sulle rive del Po, in un riparo di fortuna, un rudere abbandonato e quasi completamente distrutto dal tempo. Ad accoglierlo ci saranno gli abitanti del posto che, senza fargli domande, lo aiuteranno a riparare quella casa e a ritrovare sé stesso, ricordandogli, con la loro spontaneità ed ingenua serenità, il vero senso della vita tra gli esseri umani. Una sorta di parabola quindi sul ritorno alla vita, sull'andare verso gli altri, piuttosto che piegarsi alla volontà di chi impone quelle regole che spesso portano all'umiliazione e all'annientamento del proprio simile.
Non ci sono nomi in questo film e il protagonista è per tutti il Professorino, mentre per gli abitanti del villaggio è semplicemente Gesù Cristo, per il suo look, per il modo di parlare, per come è entrato nel cuore di ognuno senza dire nulla di sé. Olmi ci presenta quest'uomo solo dopo averci mostrato la magnificenza e l'orrore del suo gesto e gli effetti devastanti che questo ha prodotto in una comunità che si raccoglieva, e in qualche modo si riconosceva, in quel luogo dal lui sfregiato. Qualcuno definisce quell'atto "la strage degli innocenti", ma l'intuizione del film è un'altra ed è formidabile: da quei volumi non è uscito un solo grido di dolore, i libri da soli non fanno male, è l'uso (o meglio l'abuso) che gli uomini fanno di essi che può portare a immani catastrofi. L'attacco è diretto contro la Chiesa e ne è testimonianza il Monsignore che respira l'inchiostro di quei libri come fosse il suo unico ossigeno. E quando questi rivolgerà l'indice contro il Professorino per condannarlo, finirà con l'essere chiamato, lui e il suo Dio, ad una inaspettata resa dei conti.
La bravura di Olmi sta nel dare a questo suo deciso attacco antiecclesiastico i toni delicati di una storia semplice, assestando al momento giusto delle energiche stoccate che mettono in ginocchio il proprio bersaglio. Centochiodi sa essere un film rassicurante nonostante il suo chiamare in causa addirittura le responsabilità di Dio per l'orrore che c'è nel mondo, perché racconta gli uomini con grande umanità, pennellando con una sapienza commovente la stagione della vecchiaia, i soffi dell'amore, il calore della solidarietà, i brividi dell'attesa. Non mancano certo sbavature, brevi passaggi a vuoto, piccoli vezzi evitabili (come l'improvviso rivolgersi in macchina di un fotografo durante l'inchiesta iniziale dopo la scoperta della "strage"), ma Olmi è un maestro nel saper gestire le atmosfere (dall'ironia cinica della parte iniziale all'onirica meraviglia del risveglio della vita sul Po, fino al serrato ed essenziale dialogo finale tra il Professorino e il Monsignore) e nell'ammantare di calore tutta la pellicola, nonostante personaggi appena accennati. Estremamente suggestive poi alcune immagini che possono fregiarsi della bella fotografia di Fabio Olmi: da quelle severe del luogo del delitto con i cento chiodi piantati nei voluminosi libri della biblioteca a quelle delle rive del Po immerse nella luce del crepuscolo e nella nuova alba del protagonista. Un film importante che Raz Degan onora con una buona interpretazione, anche se il suo esame da attore potrà dirsi realmente superato solo quando non sarà aiutato dal doppiaggio di un bravissimo Adriano Giannini.