La vita di uno dei tanti 'agenti segreti' al servizio degli Stati Uniti, il misconosciuto William Colby, diviene arte, ma anche sguardo sull'attualità grazie al figlio Carl Colby. Documentarista, produttore, umanista, Colby ha preso le distanze dall'eredità paterna dedicandosi a tutt'altro per poi fare i conti, con la giusta distanza, con la memoria di un genitore tanto ingombrante quanto invisibile nel quotidiano. Il risultato è il bel THE MAN NOBODY KNEW: In Search of My Father, CIA Spymaster William Colby, documentario appassionato e coinvolgente che racconta la vita di Colby Sr., militare infiltrato nell'Europa nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, spia per conto della CIA in Italia negli anni '50 e in Vietnam prima dello scoppio della sporca guerra, direttore dell'agenzia (dal '73 al '75) durante l'inchiesta del Congresso successiva allo scandalo Watergate. Il Courmayeur Noir In Festival coglie l'occasione della presenza di Carl Colby, ospite della rassegna come fu il padre poco prima della morte, per riflettere sul ruolo della CIA nell'andamento della politica globale e nei crimini di cui l'agenzia si è macchiata nel corso degli anni focalizzandosi sui concetti di onore, dignità, segretezza, fede cieca in una causa e onestà. Abbiamo incontrato Carl Colby nella suggestiva cornice dell'Hotel Gran Baita per parlare del suo lavoro così intimo e, al tempo stesso, universale.
THE MAN NOBODY KNEW: In Search of My Father, CIA Spymaster William Colby non è un semplice documentario perché tocca un arco temporale fondamentale per la storia americana, affrontando argomenti e corde personali. Il lavoro è nato già con questa struttura o è stato un work in progress?
Carl Colby: Io sono un documentarista fin da quando avevo vent'anni. Nel corso della mia opera mi sono occupato di numerosi personaggi celeberi, tra cui Frank Gehry e Bob Marley, ma ho aspettato a lungo prima di dedicarmi alla figura di mio padre. Mi sono preoccupato della situazione politica, del clima che si respirava negli Stati Uniti, ma anche di mia madre, di mia sorella e dei sentimenti della mia famiglia. Nel 2001 ho assistito al crollo delle Torri Gemelle, ho seguito l'evoluzione della CIA nel corso degli anni e il suo coinvolgimento nella situazione politica internazionale. Quando mi sono sentito pronto ho cercato di documentare questo cambiamento.
In cima alla macchina di montaggio del mio produttore c'erano due parole: One Chance. Avevamo una sola possibilità di fare il film. All'inizio pensavo che sarebbe stato impossibile trovare i materiali necessari, le foto, i materiali, i video. Poi sono riuscito a recuperare documenti piuttosto rari da utilizzare per il documentario. In questo sono stato aiutato perché ho potuto collaborare con grandi professionisti, come Grace Guggenheim, la mia archivista che si è messa alla caccia di tutti materiali che riuscivamo a trovare. Alla fine ho dovuto fare una rigida selezione. Ho raccolto più di 85 interviste e alla fine sono stato costretto a sceglierne 35. Per la parte italiana ho intervistato Francesco Cossiga che ha parlato pochissimo di mio padre, ma con lui ho discusso a lungo di Aldo Moro e delle Brigate Rosse. Abbiamo recuperato le immagini del Vietnam presso l'Agenzia di Stampa Francese. La storia triste legata a tutto questo è che stiamo perdendo la nostra storia perché c'è pochissima documentazione che è stata conservata da associazioni come l'Istituto Luce in Italia. La nostra storia sta scomparendo.
Quanto tempo è durata la ricerca. C'è qualcosa che non sei riuscito a trovare? Ti sei bloccato di fronte a un ostacolo causato dalla reperibilità?
Per fare il film ci ho messo cinque anni. Non è stato facile convincere tutte le persone a rilasciare interviste. Un conto è stato parlare con i vecchi colleghi di mio padre, un conto è stato ottenere l'autorizzazione da tutti gli altri. La parte più difficile, però, non è stata tanto questa quanto fare scelte che mi coinvolgevano a livello emotivo in fase di montaggio. Trovarmi di fronte a questo materiale ha suscitato in me emozioni profonde, ma credo di essere cresciuto durante la lavorazione. Ho scelto di registrare l'intervista di mia madre stando vicinissimo all'obiettivo della telecamera perché volevo che parlasse direttamente con me per raccontarmi la storia di mio padre. All'inizio molti pensavano che io fossi pazzo a fare un film su un uomo e una donna che nessuno conosceva e su un mucchio di vecchie fotografie, ma alla fine il film ha preso forma. Ho avuto paura di non riuscire a recuperare un numero di foto sufficiente, ma in questo mi ha aiutato mia madre facendomi utilizzare quelle che conservava da tempo.
Quale è stata la reazione della CIA di fronte al film?
Quando il documentario è uscito a Washington e in Virginia, a pochi chilometri dal quartier generale della CIA, sono entrato nel cinema e ho riconosciuto tutti i volti. Ero cresciuto con loro, facevano tutti parte della CIA. Alcuni di loro mi hanno chiamato per esprimermi i loro pensieri sul lavoro che avevano apprezzato molto.
Mio padre è stato l'ultimo direttore della CIA non politico, che veniva dall'interno. Quando nel 1975 è stato invitato a dimettersi gli è stato chiesto chi avrebbe voluto come successore e lui ha detto: "Non uno dall'esterno". Non gli hanno dato retta e hanno chiamato George Bush Sr.. Da lì è nata la dinastia Bush. Mio padre non aveva un rapporto personale con il Presidente, ma i direttori che sono venuti dopo hanno creato una relazione molto pericolosa col potere perché hanno finito per dire al presidente quello che voleva sentirsi dire. Tutto questo con conseguenze pericolose. La CIA è come un esercito segreto che ogni tanto manda un rapporto al Presidente e lui lo deve approvare. Quando è stato eletto per la prima volta Barack Obama era un senatore junior dell'Illinois di 44 anni e non aveva mai avuto nessun legame con la CIA. Dopo un'ora dall'elezione ha incontrato la CIA che gli ha illustrato le missioni in cui era coinvolta in 18 paesi del mondo chiedendogli di firmare o meno le autorizzazioni. La percezione cambia completamente e il controllo del destino delle persone può dare alla testa.
Nel tuo lavoro si percepisce la forte partecipazione emotiva perché parli della tua famiglia, eppure sei riuscito a trovare la giusta prospettiva per analizzare la figura di tuo padre. Come sei riuscito a ottenere questo equilibrio?
Per prima cosa ho dovuto stabilire il contesto. Mi sono posto la necessità di trovare i parametri giusti per raccontare vicende delicate come la questione del Vietnam. Se avessi scritto un libro avrei potuto raccontare più storie, avere più spazio. In questo modo, però, mi sono dato delle regole ben precise cercando di colmare le lacune e di raccontare una storia nel modo più preciso possibile, coinvolgendo giornalisti, storici e studiosi per raccontare chi è che ha fatto la storia degli Stati Uniti. Ho cercato anche di trovare un equilibrio tra destra e sinistra, senza mai prendere posizione perché voglio che sia il pubblico a decidere. Dopo la visione una donna italiana mi ha detto di aver provato rabbia nel vedere la parte dedicata alla storia italiana perché ci è stata rubata un'opportunità. Avremmo potuto avere un comunismo alla Bertolucci, in stile Emilia Romagna. Mio padre non è mai stato un anticomunista e non ha mai detto una parola contro il comunismo. Lui era contro l'autoritarismo e contro il fascismo. Durante la guerra ha visto tante atrocità e negli anni '60 e '70 non si sentiva ancora a suo agio a viaggiare in Germania pensando a tutto quello che era successo.
Alla fine, però, fai un lavoro molto simile a quello di tuo padre, raccogli informazioni su altri.
Sono troppo socievole per fare la stessa cosa di mio padre. In realtà a lui piaceva quello che facevo perché era molto diverso dal suo lavoro. Mio fratello maggiore si è scontrato spesso con mio padre percié lui voleva che facesse del suo meglio, voleva che "uccidesse il drago". Ma competere con mio padre non era possibile, era necessario scegliere una via secondaria, fare altro, perché lui era un eroe. Con noi non ha mai perso la pazienza, ma era una persone estremamente rigida e disciplinata. Oriana Fallaci lo aveva paragonato al capo della STASI e lui se la prese molto perché aveva un forte senso del dovere. Mia madre era la bussola morale della famiglia e per lei CIA significava 'cattolici in azione', credeva nel lavorpo di mio padre ed entrambi erano ferventi cattolici. Sulla questione di armi come i droni mio padre non sarebbe stato d'accordo, non per una questione morale, ma perché per lui non erano efficienti, ma erano solo uno spreco di risorse. Lui avrebbe catturato Bin Laden senza ucciderlo, l'avrebbe portato al Cairo e dopo una seduta con la CIA l'avrebbe fatto tornare in libertà alle dipendenze dell'agenzia. Credeva nei vecchi metodi, ma la CIA, nel frattempo, ha sviluppato armi di nuovo tipo che possono uccidere in modo subdolo. Alcune sono esposte al museo dell'agenzia. E non sappiamo cosa si sia inventata adesso. Oggi siamo tutti in pericolo perché manca una legislazione che regoli questo potere assoluto.
In realtà sto pensando di sviluppare il mio film in una serie televisiva.
William Colby è un personaggio talmente interessante che meriterebbe anche un lungometraggio fictional dedicato a lui.
Ne stiamo parlando proprio ora. Ho contattato due o tre sceneggiatori di Hollywood per parlare del progetto che vorrei ambientare negli anni '50 - '60. Ti racconto una cosa curiosa. Mio padre aveva tre eroi nella vita: Lawrence d'Arabia, e questo è abbastanza comprensibile visto che rappresentava il modello della spia per eccellenza, William Holden ne Il ponte sul fiume Kwai, che si sacrifica per una causa superiore, e Harry Lime ne Il terzo uomo, il personaggio interpretato da Orson Welles. Quest'ultimo non l'ho mai capito visto che è un antieroe, una spia involontaria.