A cinque anni dalla presentazione alla Berlinale Special del loro ultimo film, La masseria delle allodole, Paolo e Vittorio Taviani tornano in concorso al Festival di Berlino con la docu-fiction, Cesare deve morire, in lizza per la conquista dell'Orso d'Oro. Girato nella sezione Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia il lavoro dei due cineasti toscani racconta la vita di un gruppo di detenuti, alcuni dei quali condannati alla fine pena mai, impegnati nelle prove dell'allestimento teatrale del Giulio Cesare di William Shakespeare. In un gioco di rimandi tra la realtà desolante della prigione e la 'libertà', seppur momentanea, offerta dal palcoscenico, i protagonisti si ritrovano strettamente legati ai personaggi che interpretano e la profondità delle immortali parole del Bardo getta una luce diversa sulla loro condizione di reclusi, tanto da spingere uno dei protagonisti ad ammettere che la sua cella è diventata una prigione nel momento esatto in cui ha conosciuto l'arte. Dopo l'applaudita proiezione per la stampa, Paolo e Vittorio Taviani hanno incontrato i giornalisti assieme a Fabio Cavalli, interprete e autore della sceneggiatura, e ad uno degli attori, Salvatore Striano, l'intenso Bruto.
Avete definito William Shakespeare come vostro padre, fratello e figlio. Perché avete scelto di utilizzare proprio il Giulio Cesare per il vostro film?
Paolo Taviani: Partiamo dalla battuta iniziale della domanda. E' vero, Shakespeare per noi è stato davvero un padre, un fratello ed un figlio. All'inizio della nostra vita è stato un mito, e umilmente abbiamo cercato di rincorrere la sua grandezza, usando tutti gli strumenti che ci ha offerto con la sua arte. Alla maturità, invece, è diventato un terribile spauracchio. Confrontandoci con lui ci sentivamo davvero piccoli, anche perché, giova sottolinearlo più volte, è stato uno dei più grandi geni della letteratura, un autore che va riscoperto sempre. Oggi, quindi da vecchi, anzi da molto vecchi, ci siamo permessi di trattarlo male. Lo abbiamo preso, smembrato, decostruito, ricostruito, in nome di uno spettacolo, il cinema, che pur essendo figlio del teatro è una cosa diversa. Crediamo che sarebbe stato contento di vedere rappresentata la sua opera attraverso il cinema, di vederla allestita in un carcere, cosa mai accaduta prima.
Vittorio Taviani: per rispondere alla seconda parte della domanda, abbiamo pensato a Giulio Cesare per una lunga serie di motivi. Antonio nel suo monologo continua a definire Bruto come un uomo d'onore, e se ci pensate bene è lo stesso termine linguistico che usano i mafiosi. Al di là di questa assonanza, in Giulio Cesare si parla di potere, tradimento, morte, congiura. C'è un capo che va ucciso e loro agiscono come se appartenessero ad una setta. Abbiamo voluto farli identificare con questi personaggi. Sinceramente non avremmo mai creduto di poter vivere alla nostra età un'esperienza così coinvolgente, che ci ha rivelato un'umanità dolente, da riscattare.
Per caso, un elemento importante nella vita. Una nostra amica ci aveva detto che a Roma c'era un teatro in cui ancora ci si riusciva a commuovere e spinti dalla curiosità e dalla volontà di emozionarci ci ha portati in questo luogo e abbiamo conosciuto i detenuti del reparto di massima sicurezza. Massima sicurezza vuol dire che in questa sezione erano rinchiusi condannati per mafia, camorra, 'ndrangheta. Li abbiamo visti mentre recitavano Dante e raccontavano l'inferno dal loro inferno, identificandosi coi personaggi. Attraverso Paolo e Francesca parlavano insomma dei loro amori impossibili. A contatto con quella realtà abbiamo scoperto una materia umana dolorosa. Tutti sappiamo cos'è il carcere, ma ciò che non immaginiamo è che si possa creare con i detenuti un rapporto di affetto, magari lavorando assieme e diventando loro complici. Anche i nostri familiari ed amici si dicevano stupiti da questa cosa, perché quando tornavamo a casa parlavamo di ognuno di loro con vero affetto. Ci rimproveravano perché sostenevano che avessero fatto male ad altre persone e che questa cosa non potesse essere dimenticata. Credo che il destino degli uomini sia misterioso e complesso e spero che questo film aiuti a comprendere meglio la realtà del carcere.
Uno dei momenti più sorprendenti del film è quello in cui si vedono i provini dei detenuti, chiamati a dire il loro nome e indirizzo in due modi diversi, prima commossi e poi arrabbiati. Ci raccontate cosa è successo nella realtà? Paolo Taviani: l'incontro è stato favorito da Fabio Cavalli che da anni ormai sta dedicando parte della sua vita a fare teatro in carcere. Ci ha messo in contatto con ex detenuti e con persone attualmente rinchiuse in carcere e poi abbiamo fatto le nostre scelte. Per venire alla domanda vera e propria, noi abbiamo sempre usato il metodo del nome, cognome, indirizzo, per fare i provini ai nostri attori e abbiamo agito nella stessa maniera anche in questo caso. Alla fine sono emersi tanti aspetti della natura di queste persone. Nonostante gli dicessimo che non importava se dicessero il vero nome e il vero indirizzo, che potevano anche inventare tutto, ognuno di loro ha detto l'esatta verità. Erano felici perché sapevano che quello che stavano dicendo lo avrebbero visto in tanti. E' come se gridassero al mondo 'guardate che noi siamo qui, ricordatevi il nostro nome' e la cosa ci ha molto commosso. Molti di loro, poi, recitavano benissimo, ma in maniera diversa dal 'benissimo' del grande attore. Salvatore-Bruto dice davvero con sofferenza che ha ucciso Cesare, dietro alle sue parole c'era un dolore che gli attori, anche i più bravi, non hanno. E' stata un'emozione giorno dopo giorno.
Salvatore, tu hai scontato la tua condanna e ormai sei un attore a tempo pieno, puoi raccontarci la tua esperienza sul set? Salvatore Striano: è stato difficile tornare ad abituarmi a quel luogo in cui sono stato rinchiuso per 8 anni, ma quando Fabio mi ha detto che mi volevano i Taviani non ci ho pensato su due volte. Credo che ogni attore sogni di essere ripreso mentre fa le prove di uno spettacolo teatrale. E poi continua a sorprendermi la modernità di Shakespeare. La cosa bella di questa esperienza è che ognuno dei protagonisti ha fatto i conti con le proprie colpe, quasi chiedendo perdono attraverso l'arte, in un luogo come il carcere che ti ferma sì, ma ti spinge anche a ripartire. Non smetterò mai di essere riconoscente ai Taviani per l'opportunità che mi hanno dato.
Perché avete deciso di girare la maggior parte del film in bianco e nero, se si eccettua quella dedicata allo spettacolo vero e proprio che è andato in scena a teatro? Vittorio Taviani: perché volevamo dare una sensazione non realistica per rievocare come nasce e rinasce l'anima di Bruto. Girare a colori sarebbe stata una scelta eccessivamente naturalistica.Secondo voi l'arte, in questo caso il teatro, può avere una funzione terapeutica? Paolo Taviani: in un certo senso sì, ma è limitante ridurre un discorso così ampio solo a questa opzione. Ciò che conta è fare conoscere l'arte ai detenuti. Quando questo miracolo avviene, come sottolinea l'attore che interpreta Cassio nell'ultima battuta del film, aumenta il dolore di non essere fuori e la cella diventa effettivamente una prigione, ma è anche vero che si ritrovano altre dimensioni dei rapporti umani. Il film è anche un racconto della scoperta della potenza dell'arte e non per niente abbiamo scelto il più grande di tutti.
Cosa potete dirci del lavoro linguistico che avete fatto sull'opera di Shakespeare, reinterpretata da ogni attore nel dialetto di appartenenza... Fabio Cavalli: ormai sono dieci anni che lavoro a Rebibbia e in tutto questo tempo, durante gli allestimenti delle opere più disparate, da La tempesta di Shakespeare a Il candelaio di Giordano Bruno, passando per L'inferno di Dante, mi sono accorto che era importante restituire il senso nascosto delle parole dei grandi autori usando il dialetto. La traduzione è sempre un tradimento, ma quando gli attori recitano in calabrese, siciliano, napoletano, romano, recitano nella loro lingua madre, per così dire.
Qual è il dato più importante che personalmente l'ha colpita in questi anni di 'militanza' artistica a Rebibbia?
Che ormai è diventato a tutti gli effetti un teatro della città di Roma e non solo uno dei tanti luoghi di un carcere. Fino ad oggi ci sono stati ventiduemila spettatori, molti dei quali studenti minorenni. E tutti si sono emozionati con gli spettacoli dei detenuti.
Signori Taviani, ci potete svelare il vostro metodo di azione sul set?
Vittorio Taviani: è molto semplice, noi facciamo tutto insieme e alla pari, guai se uno dovesse sopravanzare l'altro! Se stabiliamo che in una giornata bisogna girare dieci inquadrature, uno di noi, scelto casualmente, inizia a lavorare e l'altro è obbligato al silenzio, visto che l'attore deve avere un unico referente. Se poi colui che dirige non si sente al meglio, allora basta un colpo di tosse come segnale e l'altro interviene subito. Il problema naturalmente sorge se c'è l'undicesima inquadratura da fare... (ride)
Paolo Taviani: malinconicamente aggiungo che dividiamo anche i soldi, in questo caso pochissimi.
Per chiudere, pensate che questa vostra esperienza possa essere riprodotta anche in altre parti del mondo? Paolo Taviani: sì e sarebbe importante, la speranza è che questo film possa aiutare a guardare con più attenzione al mondo delle carceri, dove si vivono davvero situazioni tragiche. Speriamo che il film possa commuovere il pubblico, ma allo stesso tempo farlo riflettere sul fatto che viviamo un'immensa tragedia. Ci pensino due volte prima di dare un voto ad un Cesare sbagliato.