I suoi riferimenti cinematografici sono Philippe Garrel e Pier Paolo Pasolini, a cui ha dedicato anche un cortometraggio. Non stupisce, dunque, che per il suo primo lungometraggio Thierry de Peretti abbia scelto di raccontare le vicende dei suoi personali "ragazzi di vita". Così, prendendo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto otto anni fa a Porto Vecchio, il film Apache porta sul grande schermo una storia di disorientamento giovanile dove l'appartenenza nazionale e territoriale, come il codice d'onore piuttosto grezzo del gruppo, sembra condurre quasi inevitabilmente ad una violenza tanto naturale quanto inconsapevole. Sullo sfondo di questo assassinio, poi, s'intravede una Corsica inusuale che, allontanandosi dalle immagini estive da cartoline, mette in evidenza ciò che si nasconde agli occhi dei 150.000 turisti che la invadono ogni estate. Ossia, la palude che si cela sotto la grande spiaggia e nei cuori dei suoi abitanti. Presentato in anteprima assoluta alla Quinzaine de Réalisateurs durante l'ultimo Festival di Cannes e al Giffoni Film Festival, Apache verrà distribuito in Italia da Kitchen Film dal 14 agosto, praticamente in contemporanea con l'uscita francese, e in lingua originale con sottotitoli. A raccontare i segreti e le speranze di questa insolita avventura produttiva e distributiva è il regista Thierry de Peretti.
Lei è nato nella zona in cui il film è ambientato. Quanto c'è di autobiografico in questa vicenda? Thierry de Peretti: Poco, in realtà. Mio padre è originario del luogo, ma io sono andato via quando avevo solo sedici anni. Quindi ho preso una distanza precisa. L'aspetto autobiografico si può rintracciare, invece, nel trauma che ho voluto raccontare e che si radica nei contesti tipici dell'isola. In questo senso, ogni volta che rivedo il film, scopro delle cose riconducibili a me stesso anche se la mia giovinezza è stata vissuta in un modo completamente diverso.
Il film prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Che differenza c'è, però, tra verità storica e realtà filmata?Una delle sfide più difficile di questo film è stata quella di portare in superficie una memoria collettiva appartenente ad una piccola comunità. Poi, c'è stata anche la volontà di condurre il nome della vittima fuori dagli elenchi delle cronache per metterlo in una situazione cinema regalandogli in questo modo uno stato di assoluto. Un altro elemento su cui ho voluto lavorare è stata l'esorcizzazione del delitto e per ottenere questo ho girato nel luogo originale, visto che il fatto appartiene all'intera comunità e non solamente alla mia visione personale. E, per finire, volevo mostrare la Corsica, sempre poco rappresentata nelle arti visive. Però, ho scelto di raccontarla attraverso una storia difficile e non tramite l'agiografia dei suoi personaggi più noti perché i corsi hanno bisogno d'interrogarsi su queste vicende piuttosto che sui loro miti.
Cosa l'ha attratta di questa piccola vicenda tanto da ricomporla e rappresentarla?
Il fatto di cronaca ha tanto complesso nel suo insieme quanto edificante per il messaggio di redenzione che nasconde al suo interno. Inevitabilmente, ho scelto di focalizzarmi su una piccola parte del racconto, ma per me molto significativa. La zona dove tutto è accaduto, ossia Porto Vecchio, è una sorta di confine smussato dove convivono aspetti sociali tra loro molto diversi come la contemporaneità, con il capitalismo più sfrenato, ed una sorta di tara espressa attraverso una violenze atavica che sembra appartenere profondamente all'isola. E la gioventù non fa altro che rispecchiare tutte queste derive, mettendo insieme ragazzi provenienti dalla capitale con quelli appartenenti a realtà più alla deriva. Quella che proviene dalla capitale, altre che vengono dalle realtà più alle deriva.
Ho lavorato su questo per più di un anno attraverso workshop e casting permanenti. Così sono riuscito a provinare quasi il 95% degli attori tra i sedici e i vent'anni. Li ho voluti incontrare anche per avere una idea più precisa di come fosse questa gioventù. Poi, una volta scelti i ragazzi, abbiamo lavorato indifferentemente sull'improvvisazione come sulla sceneggiatura esistente. Ma l'esperienza più importante è stato vivere l'anno insieme per far in modo che la storia si adattasse a loro e viceversa. Io vengo dal teatro e sono sempre molto interessato a convivere con gli attori. Più che alla performance, sono concentrato sul creare una piccola troupe capace di vivere le sue giornate momento per momento.
Il film è girato totalmente nel formato quattro terzi. Da cosa dipende questa scelta classica?
Mi piaceva l'idea di utilizzare un formato primitivo, che riconducesse ad una idea di cinema più tradizionale. E poi mi sembrava che per il contenuto si adattasse perfettamente. Il produttore non era d'accordo ma io ho insistito molto. Il mio intento era di lavorare in modo anti documentaristico. Volevo che ci fosse contrasto tra documentazione e messa in scena.
Era l'appellativo con cui il prefetto della polizia di Belville chiamava le bande di giovani delinquenti. In qualche modo identifica i "cattivi ragazzi". Da parte mia, però, volevo anche che il titolo evocasse immediatamente il territorio, ossia questa sorta dimriserva indiana dove agiscono i protagonisti.