American Gods: il flop della serie e le ragioni di un disastro annunciato

American Gods, la serie tv basata sul romanzo di Neil Gaiman non avrà una quarta stagione: motivi e ragioni dietro un clamoroso fiasco.

American Gods: Ian McShane in una scena della serie
American Gods: Ian McShane in una scena della serie

Era il 2017 quando American Gods arrivava sul piccolo schermo. La serie tv fantasy, tratta da un romanzo tra i più amati di Neil Gaiman, lasciò letteralmente senza parole pubblico e critica, che acclamarono in modo unanime la prima stagione. Un cast ben assortito, dei registi che pur dando un tocco personale, mantenevano intatto il fascino di una storia dai toni cupi, gotici, che univa miti e leggende di ogni angolo del mondo, in un iter creativo e attuale. Tutto lasciava presagire un fenomeno di cui si sarebbe parlato a lungo, ad un successo che sarebbe stato replicato. Invece ora, quattro anni dopo, siamo costretti ad assistere alla chiusura di un progetto creativo che ha deluso moltissimo. Ma perché American Gods è fallito? Cosa è andato storto? E perché il mondo della serialità televisiva appare sempre più impazzito e sovraccarico?

Un inizio sfolgorante

American Gods: Corbin Bernsen tra Ian McShane e Demore Barnes
American Gods: Corbin Bernsen tra Ian McShane e Demore Barnes

Quando arrivò sul piccolo schermo, American Gods lasciò pubblico e critica di stucco. Al netto di un eccesso di sotto-trame, di un concentrarsi in alcuni momenti troppo sull'estetica a discapito del ritmo, la serie era incredibilmente fantasiosa, creativa e piena di personaggi misteriosi ed accattivanti. Seguendo le avventure di Shadow Moon (Ricky Whittle) e del misterioso Mr Wednsesday (Ian McShane), ci si ritrovava in breve alle prese con una guerra tra le divinità del vecchio mondo, trasfigurate dall'uomo e dalla sua storia, e le nuove divinità, fatte di interattività, tecnologia e globalismo. American Gods era una serie sicuramente bizzarra, non sempre facilissima da seguire, ma che sapeva catturare l'attenzione, anche grazie ad un iter narrativo sorprendente, studiato nei minimi dettagli, ed in cui le tematiche tipiche di Neil Gaiman, emergevano in modo preponderante. In tutto e per tutto, ciò che arrivava al pubblico, era un prodotto in cui la mistica, la trascendenza, così come l'audace visione dell'umanità dell'iconico autore, erano assoluti protagonisti. Il successo delle prime puntate fu tale, che già prima del finale di stagione, ci si chiedeva da parte di molti, se questa serie sarebbe stata in grado di raccogliere il testimone di Il trono di spade, The Walking Dead o di altre narrative, entrate in modo preponderante nell'immaginario comune. A stupire, era soprattutto l'unire sacro e profano, antico e moderno, il mondo pop con il sapere connesso alla mitologia più antica e mistica.

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Il naufragio della seconda stagione

American Gods Stagione 2 The Greatest Story Ever Told 1
American Gods: Ricky Whittle e Orlando Jones nell'episodio The Greatest Story Ever Told

Nessuna buona azione rimane impunita, recita l'antico adagio. I due anni tra la prima e la seconda stagione di American Gods, lo dimostrano in pieno, soprattutto per ciò che riguarda il destino dei due showrunners: Bryan Fuller e Michael Green. A dispetto del grande successo delle prime otto puntate, i due furono infine licenziati dalla Fremantle, a causa di divergenze per ciò che doveva essere il tono e l'andamento dello show, nonché per divergenze inerenti il budget da mettere a disposizione. Al loro posto, fu reclutato Jesse Alexander che però dovette assistere impotente alla partenza di due membri del cast tra i più importanti: Gillian Anderson e Kristin Chenoweth. In breve, trovandosi alle prese con una richiesta di riscrivere e rimaneggiare tutto il materiale, gli sceneggiatori si trovarono semplicemente alle prese con una missione impossibile, a detta loro. In molti casi, gli stessi attori furono costretti a completare gli script, così come a scrivere le proprie battute. Qualcosa di assolutamente incredibile, che generò anche contrasti con il sindacato degli sceneggiatori americani. Esausto, Alexander lasciò alla fine della stagione, che si rivelò essere un'enorme delusione per il pubblico e la critica. Lenta, noiosa, incredibilmente sovraccaricata di dialoghi senza significato, con personaggi trascurabili messi al centro dell'iter, American Gods 2 si rivelò una delusione cocente. Sovente, parve quasi che si cercasse di tenere impegnati i personaggi in qualche modo, quando il pubblico invece si aspettava la tanto attesa guerra tra Dei, il tutto nonostante più voci dicessero che vi era lo stesso Gaiman a cercare di tenere dritta la nave che, puntata dopo puntata, pareva sempre più vicina ad inabissarsi. Si salvava solo qualche isolato momento, qualche scena, in cui si intravedeva l'ombra delle promesse fatte due anni prima.

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Il mesto finale della terza stagione

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American Gods: una scena della stagione 3

Il reclutamento di Charles Eglee come showrunner, accese le speranze di molti, di tornare ad avere una trama connessa alla prima, splendida stagione, di vedere esaudite le promesse di un American Gods che tornava alle origini. Invece, nonostante vi fosse sicuramente un miglioramento rispetto al caos della seconda stagione, la terza non riuscì ad invertire il trend negativo, anche per la defezione di parte del cast. Due nomi in particolare fecero scalpore. Marilyn Manson, allontanato dopo le accuse di violenze rivoltegli da diverse donne, e soprattutto Orlando Jones, che aveva donato il suo talento al carismatico Anansi, una delle divinità caraibiche e africane più influenti di sempre. Jones si trovò dalla sera alla mattina ad essere licenziato, allontanato per volere di Eglee, convinto che il suo personaggio, per come si era evoluto nella seconda stagione, portasse un messaggio di conflittualità "sbagliato verso la comunità nera d'America". Un autogol clamoroso, da ogni punto di vista. Non solo perché Anansi era uno dei personaggi più amati della serie, ma per la motivazione politica che fu palesata, che fece infuriare il pubblico afroamericano, forte anche della reazione comprensibilmente avvelenata di Jones. Dati alla mano, la terza stagione ebbe il 65% in meno degli spettatori della prima, anche in virtù di un iter che non aveva nulla dell'analisi storica e sociale, nulla dell'energia e degli ipnotici dialoghi che aveva stregato il pubblico. Accolta con rassegnazione e scarso interesse, American Gods 3 ha segnato il fato di una serie che poteva e doveva dare di più.

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La crisi di un universo narrativo

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American Gods: Ricky Whittle e Ian McShane nella terza stagione

Si sta parlando in queste ore, di dare ad American Gods un degno finale con un film per il grande schermo. Appare però una strada difficoltosa e alquanto priva di un esito positivo qualora andasse in porto. La serie ha perso tra la prima e terza stagione, gran parte di quell'elemento di novità, di quella dimensione di fascino connessa al parlare dell'uomo, del suo cambiare la storia ed i propri riferimenti mitologici, del processo di costruzione semiotica della cultura moderna.
La sua debacle, è connessa ad una crescente conflittualità tra la realtà autoriale e produzioni che invece rivendicano un potere decisionale francamente inaccettabile. The Walking Dead, Il Trono di Spade, da capolavori di scrittura e regia, sono diventati con il tempo l'ombra di se stessi, hanno sfiorato sovente la parodia involontaria. American Gods è affondato allo stesso modo, a causa della cecità della Fremantle, che ha fatto esattamente ciò che non si fa mai dopo una prima stagione così trionfale: cambiare squadra, convinta di poter vivere di rendita. Tradire l'anima di un prodotto narrativo in modo così marchiano, insistere nonostante prove evidenti di aver commesso un errore, rifiutarsi di tornare sui propri passi, e umiliare così la comunità afroamericana, sono stati i mattoni con cui si è costruito un monumento al disastro. Il problema, a vedere la quantità enorme di serie cancellate dalla sera alla mattina, è che tale atteggiamento non smetterà di certo di qui a breve.

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