Se è vero che c'è un tempo per ogni cosa, allora è esistito anche un tempo per i divi. Un termine che ha subito talmente tante rivisitazioni ed è stato oggetto di talmente tanti dibattiti metafisici e ontologici (totalmente inutili)da perdere un significato univoco. Un tempo che sta scadendo o forse è già scaduto, ma che ogni volta che esige la caduta di un altro di quei divi ne dimostra l'immortalità, che poi, a prescindere da definizioni e dibattiti, è l'unica caratteristica che li contraddistingue sul serio. Il 18 agosto 2024 è venuto a mancare Alain Delon, che era un divo più di qualsiasi altra cosa, proprio lui che l'idea di immortalità l'ha spesso rifiutata.
Se dovessimo inquadrare il momento della nascita di queste figure mitologiche, potremmo pensare al periodo che va tra l'inizio degli anni '50 e la fine gli anni '60 del secolo scorso. Un tempo di riassestamento dopo gli sfaceli della Seconda Guerra Mondiale e forse quello di maggior brillantezza della Storia della Settima Arte, al punto da poter vantare due tipi molto diversi di cinema, uno europeo e uno che si faceva oltreoceano, con regole e logiche completamente diverse, anche nella costruzione dei divi.
I loro più fragili e irraggiungibili, i nostri più umani. I loro asseriti al dogma della perfezione che esigeva una macchina perfetta come quella hollywoodiana, i nostri invece oggetti di culto per gli spettatori e soprattutto per i registi, ossessionati dall'idea di plasmare su di loro un proprio pensiero artistico. Alain Delon è stato più di qualsiasi altra cosa un divo per questo: mai nessuno come lui è stato utilizzato per il fascino che era in grado di emanare, così grande da suscitare adorazione da giovani cineasti che vedevano in lui il futuro e da essere rincorso per anni da un regista come Jean-Luc Godard, ovvero rincorsi da una delle forme più alte di cinema. Un divo perché in grado di ispirare tratteggi, toni e impressioni completamente diversi e da parte di autori completamente diversi, come testimonia la sua incredibile carriera..
La costruzione del mito
Alain Delon è stato un interprete del divismo europeo nella misura in cui egli ha prestato il suo volto (la faccia d'angelo) e la sua fisicità al mezzo audiovisivo in modo totalizzante, mettendosi al servizio di generi e visioni che lo hanno trasformato, sporcato, decostruito e poi ricomposto per cercare di decifrarne un fascino di cui loro per primi sono stati soggetto.
Con la sua capacità di stare in scena, di cambiare pelle e vestiti, sensibilità ed espressioni, l'attore francese è riuscito a catturare l'attenzione sullo schermo sempre più di quanto lo facevano le cronache nei riguardanti il suo privato. Uno dei suoi meriti è stato fare in modo che le sue vite sul set riuscissero comunque a venire prima di quelle al di fuori, che lo volevano legato a Romy Schneider, infedele alla sua Nathalie, padre irriconoscente di un figlio morto per droga o nome di primo impatto sedotto e abbandonato da quegli alieni statunitensi. Lui, che grazie ad un personaggio statunitense lanciò la sua carriera, quando René Clement adattò il primo romanzo del ciclo di Tom Ripley, accorgendosi della complessità del fascino di Delon, accogliente, disturbante e indecifrabile, ma sempre irresistibile.
Un lato che colse come nessun altro Luchino Visconti, che riuscì a prendere una bellezza sullo schermo trascendente e piegarla su stessa, vestendola in Rocco e i suoi fratelli di una caducità che la rendeva ancora più irresistibile, quella tipica dei suoi proletari vuoti a perdere, per poi farla esplodere nel ruolo di Tancredi ne Il gattopardo, issandola ad unico faro in un mondo fatto di spettri e di ombre. Michelangelo Antonioni provò a ribaltare il senso drammaturgico che Delon trovò nei film sopracitati per renderlo mezzo di quella critica feroce al materialismo imperversante nella nostra società, cercando di utilizzarne la bellezza alla stregua di una vuota promessa. Prospettiva che non fece che premiarne la ricchezza, una volta ancora.
Alain Delon: un oggetto di culto cinematografico
Il senso immaginifico della presenza di Alain Delon, del suo fisico e del suo sguardo fu uno dei motivi filmici de La piscina di Jacques Deray, dove la trasfigurazione del personaggio è racchiusa tutta nei suoi modi di presentarsi alla camera. L'idea della mutazione e quello della fine resero ancora più divo Delon, vestito di una malinconia intrisa di nichilismo nella forma di impermeabile e borsalino in Frank Costello Faccia d'angelo di Jean-Pierre Melville. Un uomo al tramonto della sua lucentezza che però ancora mostrava quel viso meraviglioso. Il compimento della creatura mitica al servizio del cinema, amato da Roger Starter e Henri Verneuil e che affascinò Valerio Zurlini.
Ancora, in Italia l'attore parigino si sottopose all'ultimo intervento cinematografico della sua carriera. Al di là del polar transalpino, Delon conobbe l'esistenzialismo, attraverso il quale venne vivisezionato dalla testa ai piedi con una cura maniacale ne La prima notte di quiete, catturato in una bellezza decadente in cui forse si concesse la prima emersione di personalità. Un uomo che abbraccia, anzi, quasi desidera la morte come cristallizzazione di un momento, sospensione eterna. Intuendo forse cosa sia veramente l'immortalità.
Dunque, Alain Delon è stato e sarà per sempre un oggetto di culto: impossibile interprete dei suoi registi perché distante da loro e da tutti, ma non per questo non umano, non per questo inconsapevole, soprattutto nei riguardi del cinema, che lui amava più di tutto. Infatti, nonostante l'annuncio del suicidio, figlio del personaggio, probabilmente egli scelse ancora il set per accomiatarsi, anche in un modo autoironico come può essere fare una summa della sua carriera vestito da Giulio Cesare nel live action di Asterix. Autoconsapevolezza di essere un corpo artistico eterno e intramontabile, come solo i veri divi sanno essere.