Il declino dell'impero cinematografico
La morte è il più grande tabù del cinema, sosteneva André Bazin. Ma forse, per la Settima arte, esiste un tabù ancora più grande, vale a dire la morte del cinema stesso, il buio oltre l'immagine. In fondo, è di questo che parla la folgorante e densa opera seconda di Mia Hansen-Løve, giustamente insignita del Premio speciale della giuria nella sezione "Un Certain Regard" di Cannes 2009. Ne Il padre dei miei figli si intrecciano in modo inestricabile crisi esistenziale e crisi dell'arte. Entrambe si incarnano in un'unica figura, quella di Grégoire Canvel (Louis-Do de Lencquesaing), produttore indomito e idealista, mecenate di un cinema puro e anticompromissorio, pervicacemente ostile alle leggi del mercato. Il suo personaggio è modellato sulla vera storia di Humbert Balsan, una delle personalità più influenti della cinematografia francese contemporanea, alfiere di artisti dalla sensibilità altra (soprattutto quelli provenienti dal Medio oriente) e promotore del nuovo cinema francese. La stessa Mia Hansen-Løve è stata una pupilla di Balsan e la sua apprezzata opera d'esordio, Tout est pardonné, doveva inizialmente essere realizzata dalla sua società, prima che sopraggiungesse il tracollo finanziario ed emotivo del produttore.
Il padre dei miei figli può essere dunque interpretato in molti modi: memoir affettuoso, anche se non letteralmente (auto)biografico; esorcismo personale in nome della propria forza vitale creativa; triste riflessione sulla morte di un certo tipo di cinema oggi. Di sicuro non è un esercizio metacinematografico alla Effetto notte, opera-manifesto che invece testimoniava tutta la gioiosa euforia della creazione artistica. Il padre dei miei figli è piuttosto il "The Dark Side of the Moon" del film di Truffaut ("Moon" è proprio il nome della casa produttrice di Grégoire), in quanto mostra soprattutto gli aspetti più infausti e oscuri che possono celarsi dietro la produzione cinematografica. Non è un caso forse che il film di Mia Hansen-Løve sia disseminato di costanti riferimenti artistici e architettonici, che vanno da Jean Cocteau a una cappella medioevale dei Templari, da Paul Klee ai mosaici bizantini della Basilica di Sant'Apollinare in Classe. Manifestazioni estetiche diversissime tra loro per modalità espressive ed epoche di provenienza, ma in fondo tutte accomunate da un allure crepuscolare e quasi funerea, come se in tutti questi artisti fosse presente la consapevolezza di vivere in una stagione di decadenza (esattamente come la nostra). Ma a questa forte pulsione di morte Il padre dei miei figli oppone una forza, altrettanto insopprimibile, verso la vita. È quella che proviene dai superstiti della famiglia Canvel, la moglie Sylvia (Chiara Caselli), la figlia adolescente Clémence (Alice de Lencquesaing), e le piccole Valentine (Alice Gautier) e Billie (Manelle Driss). Dopo l'improvviso suicidio di Grégoire (un gesto pudico, nascosto, antiretorico, perfettamente rispettoso delle regole baziniane e bressoniane), infatti, il film prende una piega del tutto inaspettata, configurandosi nella sua seconda metà come la storia di una (ri)nascita famigliare. Una rifondazione dell'esistenza che, soprattutto per Sylvia e per Clémence, finisce per identificarsi proprio con il proseguimento dell'impulso creatore di Grégoire. Alla fine dunque a emergere nell'opera di Mia Hansen-Løve è soprattutto un afflato di speranza e di vitalità, che si affida all'eternità del valore del cinema come vessillo supremo in grado di scongiurare mortifere crisi esistenziali e culturali, di certo solo momentanee. Le opere d'arte, per fortuna, rimangono per sempre, sia che si tratti di mosaici bizantini, oppure (tanto per fare un esempio) dei film di Truffaut o Bresson...