Un altro mondo è possibile, sembra voler gridare Edoardo Winspeare con il suo poetico e illuminante documentario, anche se forse non sono tutti a voler cambiare l'attuale stato delle cose nel nostro paese. L'esperienza ormai decennale del centro interculturale "Celio Azzurro" - un'oasi della multiculturalità che si erge proprio nel cuore di quella che fu l'origine dell'identità capitolina - ha un valore eccezionale anche al di là dello straordinario servizio educativo prestato alla comunità. È un vero e proprio exemplum di vita su cui rifondare radicalmente il modo di intendere alcuni concetti come integrazione, partecipazione sociale e formazione dell'individuo. Ed è molto triste come una realtà all'avanguardia come quella fondata da Massimo Guidotti nel 1990, che dovrebbe essere preservata e tutelata dalle istituzioni, sia costretta a lottare con tutte le proprie forze per la sopravvivenza. "Siamo come i panda, in via d'estinzione" - dice Guidotti a proposito dei pedagogisti del suo centro - "non credo che riusciremo ad andare avanti più di qualche altra generazione". Ed è avvilente come anche i rappresentanti di "Celio Azzurro" siano costretti a scendere in piazza contro una riforma della scuola che vorrebbe ghettizzare gli studenti stranieri e isolarli nel corso di tutto il loro percorso educativo. Quei bambini che gridano "vogliamo una scuola colorata" sono la dimostrazione vivente che la discriminazione può essere sconfitta solo dalla convivenza con l'"altro" fin dalla più tenera età.
I diciannove anni di vita di "Celio Azzurro" insegnano proprio questo: l'arricchimento culturale e umano è prodotto dall'incontro tra le differenze. I bambini del Celio parlano tutte le lingue del mondo, eppure riescono lo stesso a capirsi e a fare amicizia, proprio come i due principi della favola messa in scena dai maestri del centro. L'esperimento pedagogico assolutamente rivoluzionario di cui questi educatori si fanno portavoce parte dal presupposto che la formazione deve essere "totale", e coinvolgere i piccoli allievi con tutti mezzi possibili, anche di tipo non convenzionale, come giochi, balli, visite guidate e gite. Inoltre, il percorso educativo viene concepito come un processo continuo, che si estende al di là della struttura del centro per sconfinare entro le mura domestiche. Per questo motivo gli operatori tentano di coinvolgere in primo luogo i genitori, stimolandone la partecipazione diretta in svariate attività. A prima vista può apparire una scelta inusuale, ma il documentario di Winspeare si apre proprio con un gioco in cui a essere coinvolti non sono i bambini, bensì i loro genitori. Lo scopo è quello di ricreare la medesima atmosfera di apertura e di condivisione che regna tra i piccoli, perché solo in questo modo il messaggio d'integrazione del "Celio Azzurro" potrà effettivamente propagarsi all'interno della comunità. Edoardo Winspeare compie un lavoro minuzioso e analitico, poggiando occhio discreto della sua cinepresa digitale non solo sull'attività all'interno del centro, ma allargando la prospettiva anche a tutto il contesto in cui si sviluppa. Poiché il "Celio Azzurro" è fatto soprattutto di persone più che di maestri - come ci tiene a sottolineare anche un educatore del gruppo - per capire veramente da dove ha origine questo rivoluzionario esperimento è necessario soffermarsi anche sulle vite private e i percorsi individuali. Quasi a ricreare un processo metaforico di regressione infantile, vengono mostrate delle fotografie intime di ciascuno degli operatori del centro, che scorrono indietro nel tempo fino a ritrarli in tenera età. Inoltre, lo sguardo sul "Celio Azzurro" si estende anche nel tempo: Winspeare non si contenta di accompagnare adulti e bambini nel corso di un anno di attività, ma si addentra anche a indagare le precedenti generazioni, che nel frattempo sono cresciute introiettando il modello educativo divulgato da Guidotti e compagnia.Con delicatezza e senza risultare mai invasivo, il regista pugliese posa il suo sguardo sui visi dei piccoli protagonisti, esaltandone il candore e la purezza, e senza perdere la vena lirica che aveva animato i suoi lavori di finzione, da Sangue vivo a Il miracolo.