Recensione Indian - La grande sfida (2005)

Donaldson racconta con uno stile assolutamente classico, non solo la storia del suo personaggio, ma soprattutto la sua America e cioè quella filtrata dall'immaginazione sognate di un regista australiano che non rinuncia ad elogiarne il suo mito fondativo.

Vivere e morire ad alta velocità

La vita ha più fantasia dell'immaginazione sentenziava con arguzia qualcuno. E non si può che concordare con questa chiosa se ci si fa prendere dalla storia raccontata in questo Indian - La grande sfida, film rincorso da Roger Donaldson per decenni, dopo che l'incontro con Burt Munro negli anni '70 lo affascinò così tanto da decidere di dedicargli un documentario (Offerings to the God of Speed) datato 1972.

Ma chi è Burt Munro, nome che al pubblico italiano dirà poco o niente? Bizzarro neozelandese nato agli inizi del secolo scorso e nome leggendario per i più profondi conoscitori del mondo delle due ruote, Munro ha passato la vita a rincorrere un sogno ossessivo: stabilire il record di velocità in sella alla sua mitica Indian del 1920. Sogno talmente proibitivo da circondare la sua persona dell'aura del pazzo stralunato e megalomane. Dopo decenni passati a mettere a punto artigianalmente la sua motocicletta, il coriaceo Munro si decide ad ipotecare perfino la sua casa, conscio che gli resta poco da vivere, per ottenere il prestito che gli permetterà di raggiungere le saline di Bonneville, nello Utah, dove collaudarà finalmente il suo bolide. Bolide di nome e di fatto, visto che nel 1967 stabilirà il record imbattuto ancora oggi.

Parte un pochino col fiato corto Indian, rischiando di cadere nelle anguste maglie della storia di formazione dai buoni sentimenti, ma i timori svaniscono presto di fronte al potere evocativo di una ricostruzione del mito di un uomo e di un periodo ad alto potenziale emozionale. Attraverso il candido sguardo del suo eroe, Donaldson racconta con uno stile assolutamente classico, non solo la storia del suo personaggio, ma soprattutto la sua America e cioè quella filtrata dall'immaginario sognante di un regista australiano che non rinuncia ad elogiarne il suo mito fondativo. Per fare questo mette in sella alla Indian un Anthony Hopkins finalmente lontano dalle sue ultime imbarazzanti e svogliate prove. L'attore gallese da vita al suo alter ego filmico con un adesione mimetica che all'inizio si mostra sin troppo ingombrante e manieristica, ma che col passare del tempo si fa più calibrata, autentica ed ironica e diventa elemento imprescindibile del crescendo emozionale della pellicola, sino al convincente climax.

Il modello di riferimento filmico più evidente è indubbiamente Una storia vera di David Lynch di cui Indian non ha il poderoso fuori campo, ne la portata metaforica, ma con cui condivide il desiderio di umanizzazione e riconciliazione con l'America ed il suo immaginario tradizionale fatto di solidarietà ed avventurismo. Il personaggio di Munro in questo senso, travalica l'epica personale e funge da collante sociale, catalizzando il senso di umanità intorno a lui e veicolando lo spirito pionieristico originale, nonostante i suoi lontani natali. E' in virtù di tale ragione, intrinseca all'animo puro e vergine che Munro porta in dote, che indiani, travestiti, piccoli imprenditori, donne sole, poliziotti e naturalmente sportivi lo amano tutti istintivamente ed intistintamente. Chissà che non lo ami anche il pubblico al cinema?