Recensione La famiglia Savage (2006)

Una storia di crescita e di vecchiaia, di malattia e morte, di ambizioni cristallizzate, con due adulti quarantenni danneggiati, 'crisalidi', con una propria maturità non raggiunta.

Una famiglia di talenti

La vita ha diviso i due fratelli Wendy (Laura Linney) e Jon Savage (Philip Seymour Hoffman). Opposti per carattere, le loro esistenze hanno preso strade differenti. Wendy, che aspira a scrivere un testo teatrale, è intrappolata in una relazione con un uomo sposato, di dieci anni più vecchio di lei, e si arrabatta in lavoretti e piccoli furti di cancelleria, mentre Jon è professore in un college, scrittore anch'esso, nevrotico, apparentemente incapace di esternare emozioni. La malattia del padre, l'anziano Lenny (Philip Bosco), che viene colpito da demenza, li costringerà a ritrovarsi e a decidere del futuro del genitore, dispotico e autoritario, da cui i due figli si sono allontanati. Chissà che dal loro forzato incontro non nasca una nuova e più matura comprensione...

Presentato con grande successo all'ultimo Sundance Film Festival, vincitore del premio alla Migliore sceneggiatura (a opera della stessa regista, Tamara Jenkins) al Flanders International Film Festival, The Savages (che in Italia viene distribuito dalla Fox con il titolo La famiglia Savage) è uno di quei rari film che sanno equilibrare dramma e commedia, humour e commozione, offrendo allo spettatore nulla di più che squarci di vita quotidiana, nelle difficoltà di due fratelli sfortunati che si trovano a dover occuparsi di un padre che volevano dimenticare e che, invece, li sta dimenticando lui, a causa della demenza senile.

Diretto da Tamara Jenkins, che torna dietro la macchina da presa dopo lungo tempo dal sensibile L'altra faccia di Beverly Hills (1998) La famiglia savage è un film delicato, pieno di poesia, una di quelle pellicole che capitano purtroppo raramente e che lasciano un segno indelebile nell'animo dello spettatore.
Una storia di crescita e di vecchiaia, di malattia e morte, di ambizioni cristallizzate, con due adulti quarantenni danneggiati, 'crisalidi', con una propria maturità non raggiunta. Due fratelli in crisi nel dover accettare la morte futura del genitore, che apre fatalmente un abisso di non senso nelle loro esistenze, quando la vita per loro 'deve ancora realizzarsi e iniziare'.

Laura Linney e Philip Seymour Hoffman fanno a gara in una prova di bravura che non può non colpire lo spettatore: la Linney si cala nei panni di una donna confusa, che ha fatto della sua vita sentimentale, interpersonale e lavorativa, un caos,
mentre Hoffman, per contrasto, interpreta un uomo falsamente calmo, riflessivo, che evita di esprimere sentimenti e che sfugge ogni contatto e coinvolgimento 'intimo'. Tra i due attori l'alchimia è perfetta: difficile trovare sullo schermo esempi così palpabili di sintonia.
Nulla di più e nulla di meno che la vera vita, quindi. In cui si ride, si piange, in cui ci va bene e ci va male. Non ci sono colpi di scena, effetti speciali, eclatanti azioni esteriori: ogni atto, ogni dialogo è un procedere verso una conclusione commovente, piena di speranza.
Nella convinzione che certe esperienze, magari faticose e dolorose, possono darci la possibilità di conoscere di più, oltre che noi stessi, il nostro prossimo, riuscendo anche a capirlo e a penetrare il suo mondo. Scusate se è poco.