Recensione Frankenstein (1931)

Inquadrature sempre piene ed un abile gioco di luci e ombre di chiara ispirazione espressionista, rendono evidenti e terrorizzanti un insieme di elementi ideati proprio per il film che ha creato il culto di Frankenstein ma inesistenti nell'opera originaria.

Un Prometeo moderno

"Ti chiesi io, Creatore, dall'argilla di crearmi uomo, ti chiesi io dall'oscurità di promuovermi": questa è solo una delle frasi che escono dall'inanimata voce della creatura di Frankenstein, una "cosa" plasmata dall'unione di diverse parti anatomiche di uomini deceduti nel breve periodo. Il riferimento è naturalmente letterario, a quel racconto nato dalla mano della giovane Mary Shelley fra il 1816 ed il 1817, dopo un gioco di inventa storie su fantasmi durante un soggiorno estivo, ma piovoso, in Svizzera. Una frase fondamentale che racchiude in se diverse chiavi interpretative di un racconto che tanto ha ispirato teatro e cinema.

Già nel 1823 sono numerose le rappresentazioni teatrali ispirate al racconto, come quella di Richard Peake Presumption, o quella del 1927 di Peggy Webling, capace di persuadere la Universal alla realizzazione di una versione cinematografica, effettuata anche grazie al successo del Dracula con Bela Lugosi. Ad una prima parte della produzione venne coinvolto il regista Robert Florey (The Coconuts), del quale rimarrà nella versione definitiva diretta da James Whale l'idea del mulino in fiamme, elemento inesistente, come molti altri, nella versione letterale. Ed ecco così immergerci nella storia del dottor Frankenstein, versione primordiale dello scienziato pazzo, accecato dalla volontà di creare la vita a propria somiglianza senza tener conto di Dio. Quando la creatura prende vita grazie alla luce primordiale scoperta dal dottor Frankenstein (Colin Clive), questo esalta la sua pazzia in un spasmodico urlo divino censurato nella versione del 1931, accompagnata da un prologo di avvertimento (per evitare le proteste delle associazioni religiose e ben pensanti del periodo) dove Edward Van Sloan prende le sembianze dell'anonimo autore della prima edizione, per indossare poco dopo le sembianze del dottor Waldman, parente stretto del Van Helsing di vampiresca memoria. Una panoramica sui volti distrutti di persone che danno l'ultimo saluto ad un parente scomparso termina sul volto duro e terrorizzante della morte (inizialmente si era realizzata una sequenza in campo lungo che verrà inserita nel sequel La moglie di Frankenstein), che si sovrappone al primo piano asfissiante di Fritz (Dwight Frye), aiutante ingobbito alle spalle del quale sorge la pazzia della scienza. Un campo lungo su un cimitero espressionista mostra le figure dell'aiutante e del dottore entrare in campo tra la croce e la morte, la prima simbolo dell'impotenza di Dio davanti ad una scienza avanguardista, la seconda infangata dalla capacità dell'uomo di superare anche la morte. In queste prime sequenze ecco che vengo inseriti elementi innovativi, al periodo di per se terrorizzanti, come il tonfo della terra sulla bara o l'impiccato non adatto all'esperimento. Prima di soffermarci sulla figura della creatura, sulla sua non nascita ed evoluzione, bisogna soffermarci su una sequenza insolita del film, il dialogo tra Elizabeth (Mae Clarke) la fidanzata del dottore e l'amico fidato Victor Mortiz (John Boles). Per animare una sequenza piatta (qui viene manifestata la preoccupazione verso Frankenstein alleviata dall'evidente amore tra i due personaggi) il regista la definisce in modo insolito, introducendo le figure chiamate in causa da quattro primi piani consecutivi, prima di tornare sul campo lungo di ambientazione.

Dall'amore soffocato da un impegno pre-matrimoniale alla nascita della creatura; imponente figura dalla fronte alta, un viso scavato, l'incapacità di parlare e due occhi eternamente spenti. Nei titoli di testa alla voce The Monster è possibile vedere solo un punto interrogativo, un espediente molto in voga al periodo, che in fine assume le sembianze di un Boris Karloff pesantemente truccato dal genio di Pierce Jack, consacrato dall'interpretazione all'olimpo del cinema. L'interpretazione di Karloff, senza eguali, riesce ad esprimere pienamente la diversa interpretazione della figura del Prometeo evidente nel libro della Shelley: quello greco, titano ribelle che ruba il fuoco dall'Olimpo per salvare l'umanità, da cui viene tratto il tema della ribellione contro il destino, e quello romano, rielaborazione della legenda di Ovidio (Metamorfosi) dove Prometeo plasma gli umani dalla creta. Numerose possono essere qui le sequenze da richiamare (la ribellione al padrone, l'uccisione di Fritz, l'origine del suo male nel cervello abnormale rubato nella stessa università del Faust di Marlowe, il gioco tragedia con la bambina), ma una in particolare è dimostrazione del talento di Karloff e esaltazione della figura inanimata della creatura: la vista del sole causa il sorgere di una scoperta vitale da parte del mostro che si innalza verticalmente verso essa, magari con la volontà di afferrarla, diventando un tutto con la scenografia verticale di Hermann Rosse, che pare essere realizzata per esaltarsi in questo breve momento.

Inquadrature sempre piene ed un abile gioco di luci e ombre di chiara ispirazione espressionista, rendono evidenti e terrorizzanti un insieme di elementi ideati proprio per il film che ha creato il culto di Frankenstein ma inesistenti nell'opera originaria: dai tratti fisici del mostro ai macchinari inventati per creare la vita, infatti nelle pagine del libro la giovane autrice non parla di lampi, tuoni e metalli, ma ambiguamente lascia intendere alla presenza di un elemento di magia nera o addirittura ad un elisir, insomma qualcosa più vicino all'alchimia che alla scienza, senza così nulla togliere all'intento prometeico del personaggio Frankenstein simbolo della volontà dell'uomo di sostituirsi a tutto, ma destinato solo alla pazzia e alla morte.