Recensione Stray Dogs (2013)

Il nuovo film di Tsai Ming-Liang conferma tematiche e stilemi del suo autore, senza tuttavia dar mai l'impressione di scivolare nella maniera: al contrario, colpisce la sua lucida rappresentazione di una famiglia sui generis, condannata a restare ai margini, e dello spietato contesto sociale in cui questa si muove.

Ai margini, ma vivi

A Taipei, un uomo vive per strada, senza fissa dimora, insieme ai suoi due bambini. L'uomo si guadagna da vivere reggendo cartelloni pubblicitari per le strade della città, sotto il sole come durante le giornate di pioggia, esposto al caldo o alle intemperie. I tre dormono in edifici abbandonati ai margini della città, slums nascosti dalla rapida industrializzazione subita dal paese negli ultimi decenni: i due ragazzini si lavano nei bagni pubblici insieme al padre, e mentre lui è al lavoro scorazzano nei prati intorno alla metropoli, o fanno la spesa al supermercato. In un impeto di fantasia, comprano persino un cavolo e gli danno forma umana, disegnandoci sopra un volto e facendone un nuovo membro della famiglia. Un giorno, nelle vite dei tre si introduce una donna: incontra la ragazzina al supermercato, inizia a seguirla, scopre l'edificio diroccato in cui i tre dimorano, e decide di intervenire. L'uomo sarà così costretto a separarsi dai suoi due figli, o forse l'intervento della donna potrà segnare l'embrione di una nuova famiglia?

Il cinema di Tsai Ming-Liang non conosce compromessi, così come non ne conosce il suo autore, da sempre così radicale nell'approccio alla materia filmica. Disgustato dall'industria, e dalla visione del cinema come semplice "servizio" allo spettatore, Tsai, prima di girare questo Stray Dogs, aveva persino pensato di smettere di fare il regista; e, nel presentare questa nuova opera, ha fatto sapere che questo proposito è tutt'altro che abbandonato, e che il film sarebbe perfetto come suo testamento artistico. Un randagio, quindi, lui come i suoi personaggi, volutamente ai margini dell'industria cinematografica: vedendo i suoi film, non si hanno problemi a capire la radicalità del suo punto di vista, nonché a saggiare la distanza che separa la sua concezione dell'arte cinematografica da quella che considera i film principalmente un intrattenimento, a Oriente come a Occidente. In questa opera si ritrovano tutti gli stilemi e i temi principali del cinema di Tsai: i lunghissimi piani sequenza, con la macchina da presa il più delle volte immobile ad esplorare i volti di attori che si esprimono facendo un uso parco di dialoghi; l'attenzione maniacale alle scenografie urbane, e l'occhio privilegiato per coloro che abitano i bassifondi e le parti nascoste della città; lo sguardo critico sull'evoluzione, economica e sociale, della Taiwan moderna, e sull'atomizzazione dei rapporti sociali che essa porta con sé. Chi va a vedere un film di Tsai, sa esattamente cosa attendersi, e questa nuova opera non sposterà di un millimetro (e non sarebbe, d'altronde, neanche stato lecito aspettarselo) le posizioni di estimatori e detrattori.
Eppure, nel suo essere così riconoscibile come film di Tsai Ming-Liang, nella reiterazione di tematiche ed estetica propri del suo autore, Stray Dogs colpisce per la forza e la lucidità della vicenda che mette in scena. Nonostante la sua lunga carriera (contrassegnata, tuttavia, dalla parsimonia con cui ci ha offerto, in più di un ventennio, i suoi film) il cinema di Tsai non dà mai l'impressione di trasformarsi in maniera, in compiacimento autoriale o vuota ripetizione di se stesso. La sua macchina da presa fissa fa parlare i volti dei suoi attori, che esprimono un raro controllo dell'espressività facciale, e quelli degli ambienti che mette in scena; in qualche modo personaggi anch'essi, compartecipi del dramma. Il lungo racconto fatto dalla donna ai due ragazzini, sulle lacrime piante dalla casa esposta alle intemperie, non è certamente casuale. Così come non è casuale il soffermarsi sul dipinto posto nell'edificio abbandonato, rappresentazione o proiezione di un universo solo sognato: ammirato per lunghi minuti, con struggente estasi mista a tristezza, luogo ideale in cui realizzare un'idea di vita per sempre preclusa ai protagonisti.
Lo sguardo spietato, lucidamente pessimista, sulla realtà dell'attuale società taiwanese, va a sommarsi a quello intimo, così pregnante e toccante, sulla vita del piccolo nucleo familiare: con un'emotività trattenuta che, in singole sequenze (non riveleremo, qui, quella più significativa) esplode in momenti di drammatica intensità. I quattro attori protagonisti (tra cui spicca, nel ruolo principale, l'attore feticcio del regista Lee Kang-sheng) sono perfetti nel dare corpo, e volto, a questo nucleo familiare sui generis: esponenti di un'umanità, e di un cinema, tristemente consapevoli della loro condanna a restare ai margini, ma più che mai decisi a non essere cancellati.

Movieplayer.it

4.0/5