Recensione La belle vie (2013)

L'esordiente regista francese Jean Denizot trasforma un fatto di cronaca che fece molto scalpore Oltralpe in un tenerissimo racconto di formazione e nella storia di un indimenticabile primo amore.

Le avventure di Sylvain

Pierre e Sylvain sono due fratelli molto uniti che da anni vivono in clandestinità assieme al padre, un uomo che dopo averne perso la custodia li ha rapiti, costringendoli a cambiare spesso residenza. Il loro è un ménage difficile, ma estremamente sereno; i ragazzi vogliono bene a Yves e anche se non ne comprendono appieno alcune scelte, contestandole apertamente, nutrono per lui un sincero affetto. Quando le autorità scoprono il loro nuovo nascondiglio, Pierre fugge senza dare spiegazioni e si trasferisce in città per fare il cuoco e Sylvain inizia a mostrare insofferenza verso la vecchia vita, anche grazie all'incontro con la bellissima Gilda, la ragazzina che gli fa battere il cuore. Il sedicenne comincia una lunga battaglia per convincere l'amato papà a costituirsi.
Non sono pochi gli autori che si sono interrogati sulla maniera giusta di raccontare quel momento magico in cui un ragazzino diventa uomo, quando cioè si rivolge a colui che da sempre rappresenta una certezza, il padre, e scopre di saper fare da sé le proprie scelte, rischiando in prima persona e giocando il tutto per tutto. L'esordiente regista francese Jean Denizot azzecca la formula giusta e in La belle vie, film d'apertura della decima edizione delle Giornate degli Autori - Venice Days, trasforma un fatto di cronaca che fece molto scalpore Oltralpe in un tenerissimo racconto di formazione e nella storia di un indimenticabile primo amore.

Lungi dall'essere una dettagliata ricostruzione dell'affaire Fortin, che si concluse nel gennaio 2009 con l'arresto dell'uomo e la successiva 'liberazione' dei figli, l'opera di Denizot si concentra sul giovane protagonista, il bravissimo Zacharie Chasseriaud e lo trasforma nel primo attore della vicenda; la macchina da presa lo scruta da capo a piedi, lo riprende nelle sue guasconate, prova a rivelarne i segreti più intimi e riesce a mostrare con efficacia il rapporto che lo lega al padre Yves (Nicolas Bouchaud). Il cuore del film in fondo è tutto qui, nella presa di coscienza che è possibile intraprendere la propria strada, distanziandosi da un genitore che non si odia, ma che ha comunque il demerito di aver privato i figli della libertà di scegliere. Non è un caso che sia proprio Sylvain, il meno ribelle dei fratelli, a tagliare il cordone ombelicale in maniera duratura, grazie alla spinta del primo importante rapporto sentimentale della vita.
Il ragazzino diventa quindi adulto in una circostanza straordinaria e come un novello Huckelberry Finn attraversa in lungo e in largo il fiume che lo porta dall'amata fanciulla, verso una nuova esistenza. Il personaggio nato dal genio di Mark Twain è una sorta di modello per Sylvain, che legge Le avventure di Huckleberry Finn proprio quando sta per spiccare il volo. Non sorprende certamente per lo stile questa opera prima, che parla di adolescenza in maniera fresca e autentica, senza edulcorarne gli aspetti più drammatici e conflittuali, ma mantenendone intatta la sua incredibile spinta vitale. Come un dipinto naturalista sono gli ambienti a interagire con i personaggi, accompagnandoli nel loro percorso di ricerca dell'identità; la campagna dei Pirenei, con il lento scorrere del fiume Loira rimanda ad una calma sconosciuta a questo gruppo di protagonisti inquieti, in cui spicca la morbida Gilda (Solène Rigot). La belle vie del titolo, allora, citazione del classico francese di Sacha Distel non è la vita comoda, normale, socialmente accettabile, ma è semplicemente l'unica vita vera possibile. La loro.

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3.0/5