Recensione In the Basement (2014)

Ritorna al documentario il cineasta austriaco Ulrich Seidl che con questo lavoro esamina in maniera spietata cosa si nasconde nelle cantine delle case rispettabili e sono storie che difficilmente possono lasciarci indifferenti.

Il 2 marzo del 1998 una bambina viennese di 10 anni, Natascha Kampusch, viene rapita e segregata per i successivi otto anni nella cantina di un uomo, Wolfgang Přiklopil, che ne abuserà in ogni modo, rendendola schiava. Nel 2008 Josef Fritzl è stato incriminato per il sequestro della figlia Elisabeth, imprigionata nel bunker della loro casa per 24 anni. Cosa c'entrano questi fatti di cronaca che hanno sconvolto l'Austria con il nuovo lavoro di Ulrich Seidl, In the Basement (In cantina)? Tutto e niente. Il documentario del cineasta austriaco, presentato Fuori Concorso alla 71.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, non racconta nulla di quanto vi abbiamo raccontato, eppure ne coglie in pieno lo spirito, agganciandosi ai due casi per raccontare, in maniera del tutto originale, quanto si nasconde negli anfratti segreti di case appartenenti a rispettabili cittadini.

Scopriamo quindi che cantine, i seminterrati, tavernette, sono luoghi molto importanti nella vita sociale degli austriaci che, protetti dalla mura domestiche, riescono a sentirsi liberi di essere se stessi, nel bene e nel male, di inseguire un barlume di felicità o cullarsi nella nostalgia di una vita ormai lontana. Le immagini di un cacciatore e delle sue prede si alternano a quelli di un tubo da giardinaggio, poi arriva un uomo appassionato di serpenti, proprietario di un pitone gigante, che si avventa su una preda innocente, diremmo il suo pranzo, con una violenza sconvolgente. E' l'immagine che fa sobbalzare il pubblico e ci introduce in quello che sarà il cuore pulsante del film, un'analisi implacabile dell'indecenza umana, oscena proprio perché tenuta "normalmente" lontano dai riflettori.

I personaggi

In the Basement: una scena del documentario di Ulrich Seidl
In the Basement: una scena del documentario di Ulrich Seidl

Scritta con la moglie Veronika Franz, l'opera segna un ritorno al documentario per Seidl, dopo la trilogia Paradise (Love, Faith, Hope); il cineasta viennese ci mostra il gruppo di personaggi che lo hanno ispirato con un montaggio secco, senza utilizzare particolari raccordi narrativi. L'apparente casualità con cui le storie dei singoli vengono intrecciate è già un primo aspetto vincente di questo lavoro, il cui filo rosso è invece ben chiaro all'autore, e ci sembra essere legato ad una certa cultura costruita sulla sopraffazione, sul mancato riconoscimento dell'umanità dell'altro. Un discorso che Seidl non ha voluto circoscrivere solo alla propria nazione, ma che nell'Austria di oggi, in cui sono fortissime le spinte xenofobe, sembra assumere un aspetto ancora più inquietante.

Se voglio essere veramente dominante, porto il mio uomo in cantina

Tra le persone di cui facciamo conoscenza c'è una signora che quotidianamente, ciabattando in vestaglia, raggiunge la cantina per giocare con dei bambolotti che riproducono esattamente le fattezze di un neonato; un espediente innocente, se non fosse per la sensazione terribile che ci lascia assistere ad una donna che non riesce a distinguere la realtà dall'immaginazione. Un mite suonatore di trombone, baffo curato e aspetto pacioso, innamorato della musica e della buona birra, varcato il confine della propria abitazione, si rivela essere un nostalgico nazista, adoratore del Führer. La quarantenne che ama sottomettere il compagno, obbligandolo alle più turpi delle "punizioni" e alle sopraffazioni sessuali più svariate, scrupolosamente testimoniate, è solo l'altro lato della medaglia rappresentato da una masochista che ha scoperto di amare il dolore al termine del suo disastroso matrimonio con un uomo violento.

Chiuso a chiave. A doppia mandata.

In the Basement: un'immagine del documentario
In the Basement: un'immagine del documentario

Rigore geometrico e inquadrature perfette incorniciano un materiale estremamente disturbante, che ci viene presentato in tutta la sua "immoralità", ma senza alcuna deformazione (non ce n'è davvero bisogno); laddove lo spazio si fa più ristretto, quindi, la macchina da presa di Seidl apre dei mondi. E sono quasi tutti orribili. Se si eccettua per un giovane batterista che utilizza "classicamente" la cantina per scatenarsi, le generazioni più "vecchie" considerano questo luogo misterioso come un palcoscenico nefasto, un mondo segreto protetto dalla curiosità esterna. Testimone silenzioso di un universo in cui il concetto di morale è piuttosto elastico, l'occhio di Seidl si nasconde per dar modo ad ogni protagonista di brillare di luce propria, senza emettere alcun giudizio. Ma quando raccoglie le dichiarazioni dei diretti interessati, esso prende vita, illuminandoci con lampi di umorismo agghiacciante, fatto di canzoncine sconce ed espressioni buffe, e mostrandoci una verità oggettivamente dolorosa, anche se filtrata da uno sguardo d'artista. Perché se è vero che un documentario ci mostra una realtà quanto più possibile credibile, in questo caso le sequenze vanno oltre ogni immaginazione e riescono a trascendere il concetto stesso di bellezza.

Una scena di In the Basement
Una scena di In the Basement

Conclusione

Seidl scoperchia un pentolone carico di violenza e sopraffazioni, patologie maniacali e bruttezza e punta l'indice contro una società spaventosa che dietro una facciata rispettabile nasconde vizi e segreti indicibili. Almeno fino ad oggi.

Movieplayer.it

3.5/5