Recensione Shall We Dance? (2004)

Un prodotto furbo e senz'anima, che mira all'emozione d'accatto con una programmatica assenza di spessore, e che non rivela altro motivo di esistenza oltre alle prevedibilmente vivaci sequenze di ballo.

Noia danzante

John Clark, avvocato di successo, conduce una vita che scorre tranquilla e rassicurante: ha una moglie che ama, due figli con cui ha un ottimo rapporto, un lavoro gratificante. Eppure, la routine sempre in agguato, unita ad una sorta di "visione" più volte colta dall'uomo nel viaggio di ritorno dal lavoro (una splendida ragazza dall'aria triste, che guarda da una finestra), porta John a deviare il corso regolare della sua vita: l'avvocato decide di prendere lezioni di danza presso la scuola in cui ha visto la ragazza, nascondendo il tutto a sua moglie. Presto, l'uomo finirà per innamorarsi, oltre che della giovane, anche di questa sua nuova attività.

Remake dell'omonimo film giapponese del 1996, grande successo in patria, questo Shall we dance?, diretto da Peter Chelsom (di lui si ricorda la commedia romantica Serendipity) si presenta purtroppo subito per quello che è: un blockbuster piatto e senza idee, diretto in modo scolastico e interpretato senza convinzione da tutti i suoi protagonisti. Un plot risaputo e poco stimolante presenta personaggi senza spessore, a cominciare dal protagonista, un Richard Gere inutilmente gigionesco e con un poco credibile sorriso perennemente stampato in faccia, per arrivare a una Jennifer Lopez altrettanto poco convinta; il tutto per raccontare una storia di fuga dalla routine quotidiana affrontata con una superficialità disarmante, permeata dello stesso insopportabile buonismo che sembra ormai avere contaminato tutte le commedie hollywoodiane recenti, e caratterizzata dal totale disinteresse degli sceneggiatori per l'elemento credibilità. A lasciare sconcertati è la totale mancanza di tensione, il taglio televisivo (quasi da soap opera) della narrazione, la rozzezza e la superficialità dell'approccio alla materia, che non necessariamente doveva produrre un film senz'anima come questo. Gli esterni di Chicago, atti teoricamente a comunicare un presunto senso di solitudine, i primi piani insistiti del protagonista, la voce narrante che carica il tutto di un inutile didascalismo: è evidente il punto di vista con cui si è scelto di narrare la vicenda, un punto di vista che cerca l'emozione d'accatto, l'enfasi ridondante e annegata nella melassa di una storia che annoia già dopo pochi minuti di visione. A mancare principalmente è proprio una sceneggiatura degna di tale nome, mentre la regia si caratterizza per la sua piattezza e la totale assenza di guizzi, perfettamente coerente con la programmatica assenza di spessore della narrazione.
Così, ad interessare lo spettatore già interessato di per sé sono solo le vivaci sequenze di ballo, la cui (limitata) efficacia è comunque condizione minima per giustificare l'esistenza di una pellicola che altrimenti non avrebbe semplicemente altre istanze a tenerla in vita.

Alle prove sotto tono dei già citati Gere e Lopez va aggiunta quella altrettanto svogliata di una Susan Sarandon a volte inutilmente sopra le righe, mentre si salvano in parte, se non altro per la loro simpatia, i comprimari Stanley Tucci (visto di recente in The Terminal), e Lisa Ann Walter, rispettivamente nei panni di un collega di lavoro del protagonista inaspettatamente ritrovato nel nuovo ambiente, e di una sua divertente e sboccata "spalla" danzante.
Finiti gli oltre cento minuti del film (comunque decisamente troppi) si esce sfiancati dalla noia, pronti a dimenticare le velleità danzerecce di Gere con tutto quello che ne consegue, e con la voglia, genuina e inarrestabile, di vedere un vero film: ed è forse questo l'unico, involontario pregio che possiamo ascrivere a questo inutile, furbo e vuoto prodotto della (peggiore) industria cinematografica hollywoodiana.

Movieplayer.it

2.0/5